È tornato in carcere anche Domenico ‘Mico’ Farinella, lo storico boss delle Madonie, nell’operazione antimafia che ha portato al fermo di undici persone. Il capomafia ha continuato a comandare anche dal carcere e una volta tornato libero all’inizio di quest’anno ha ripreso le redini del mandamento. Proprio come sette giorni fa con l’operazione che ha portato in carcere i vertici del clan di San Lorenzo a Palermo: i Carabinieri del comando provinciale di Palermo hanno eseguito un provvedimento di fermo vecchi e nuovi capi e gregari nel mandamento di San Mauro Castelverde, regno incontrastato della famiglia Farinella. Le persone fermate sono accusate a vario titolo di associazione mafiosa estorsione, trasferimento fraudolento di beni, corruzione, atti persecutori, furto aggravato e danneggiamento in Sicilia, Lombardia e Veneto.

Una vera e propria dinastia di Cosa nostra: il nonno Giuseppe morto in carcere nel 2017, il figlio Domenico che dalla prigione era appena uscito nel 2020 dopo una lunga detenzione e il nipote Giuseppe che ha gestito le sorti del mandamento tra le province di Palermo e Messina. Una tradizione talmente radicata che gli uomini del clan erano sicuri dell’affidabilità degli altri mafiosi. A San Mauro, infatti, agiva una cosca chiusa e impenetrabile come il fiore Alastra, che dà il nome all’operazione. “Perché sono i numeri uno. Come loro come tutti quelli che ci sono stati. Compreso mio padre. Qua nessuno si pente compà, San Mauro numero uno, perché mi voglio vantare, San Mauro è Corleone“, dicevano senza sapere di essere intercettati. I carabinieri hanno ascoltato “in diretta” le estorsioni messe in atto dal clan. “Ci vai incazzato, tanto io sono qua non ti preoccupare. Ci servono subito (i soldi, ndr) tanto li ha trovati, ci servono tutti”. Ed ancora. “Solo per l’amico, l’amico sono io, ci sono 20 mila euro per l’amico. Noi altri ci siamo messi a disposizione. Lui ancora deve dare 5mila euro. Qua dobbiamo ragionare da uomini. E’ da 30 anni che noi altri siamo con tuo nonno, con tuo zio siamo fianco a fianco”. E se qualcuno si ribellava il sistema per fargli cambiare idea c’era. “Gli ho dato una testata, così gli ho spaccato il naso – dicevano gli uomini del clan intercettati -. Lui non ha detto niente a nessuno. Tu non l’hai vista la testata?” “L’ho vista, l’ho vista, io tutte cose ho visto e tutte cose vedo io”, risponde un altro.

Gli affari del clan erano sempre gli stessi: estorsioni a tappeto e controllo capillare delle attività economiche nella zona. L’indagine del procuratore aggiunto Salvatore De Luca ha decapitato il clan di San Mauro che dal giorno successivo all’operazione Black Cat nel 2016, avevano serrato le fila e continuato ad imporre il proprio potere. Numerose le estorsioni ai danni dei commercianti locali documentate dai militari, così come l’organizzazione di una efficientissima rete di comunicazione necessaria agli storici capi mafia detenuti per mantenere il comando e continuare a strangolare imprese e società civile. “Alcuni imprenditori si sono rivolti direttamente ai Carabinieri per segnalare il pizzo. Questa è la risposta giusta, rivolgersi alle forze dell’ordine e magistratura per affermare il diritto ed eliminare la piaga della mafia da una terra cosi bella come quella della Sicilia”,ha detto il generale Arturo Guarino, comandante provinciale dei Carabinieri di Palermo in conferenza stampa.

Le indagini hanno consentito di evidenziare il ruolo ricoperto da Giuseppe Farinella, figlio di Domenico Farinella, boss all’epoca detenuto a Voghera in regime di alta sicurezza, che continuava a comandare dal carcere. Nonostante la giovane età, Farinella junior ha avuto il compito di coordinare gli altri affiliati, cooperando con uno storico mafioso di Tusa, Gioacchino Spinnato, che ha gestito i contatti con gli uomini d’onore degli altri mandamenti, fra i quali Filippo Salvatore Bisconti, boss di Belmonte Mezzagno ora collaboratore di giustizia.

Sono state ricostruite 11 estorsioni, 5 consumate e 6 tentate. Alle vittime era imposto di pagare il pizzo o di acquistare forniture di carne da una macelleria di Finale di Pollina gestita da Giuseppe Scialabba, braccio destro di Farinella. I tentacoli del mandamento si erano allungati anche sull’organizzazione dell’Oktoberfest del 2018 a Finale di Pollina, quando, per impedire la partecipazione alla sagra di un commerciante che non si era piegato alle imposizioni del clan, gli indagati non avevano esitato a devastargli lo stand. Le indagini hanno consentito di evidenziare anche la gestione diretta di attività di impresa che, fittiziamente intestate a soggetti incensurati, erano nei fatti amministrate dagli indagati. Per cercare di non avere problemi con la giustizia Giuseppe Farinella e Giuseppe Scialabba avrebbero intestato a prestanome un centro scommesse di Palermo e una sanitaria di Finale di Pollina, sottoposti a sequestro. Il valore? Più di un milione di euro.

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