Lo stop all’aborto farmacologico in day hospital deciso dal centrodestra in Umbria e il conseguente obbligo di ricovero per tre giorni ha provocato le proteste di associazioni per i diritti delle donne, femministe ed numerosi esponenti del centrosinistra. Ma soprattutto ha riaperto la discussione sull’interruzione di gravidanza per via farmacologica. Tanto che il ministro della Salute Roberto Speranza oggi ha richiesto un parere al Consiglio superiore di sanità (Css), “alla luce delle più recenti evidenze scientifiche. “L’ultimo parere in materia era stato espresso dal Css nel 2010”, si legge in una nota del ministero.

“Non contesto le decisioni di una singola Regione, essendo la sanità una sua competenza, ma non tutto il male viene per nuocere”, ha commentato all’Adnkronos Elsa Viora, presidente dell’Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi), “ha avuto il merito di sollevare la questione anche a livello nazionale e infatti il ministro della Salute Roberto Speranza ha richiesto un parere al Consiglio superiore di sanità (Css): vuol dire che su questo tema qualcosa si sta muovendo”. Proprio Aogoi in queste settimane, insieme alla rete Pro choice ha più volte sollecitato maggiore incentivo all’aborto farmacologico per evitare di congestionare gli ospedali e tutelare la salute delle donne. “Ciò che come società scientifica stiamo facendo è lavorare a livello nazionale. Nel pieno della pandemia, anche approfittando un po’ della situazione, avevamo cercato di evidenziare una questione importante che era caduta nel vuoto, al di là di dichiarazioni a voce di sensibilità al problema. Speriamo che il Css si esprima in modo favorevole perché sarebbe un grande vantaggio prima di tutto per la salute delle donne, e poi per l’organizzazione ospedaliera”. E ha concluso: “I nodi da sciogliere sono due: quello di poter ampliare l’uso del farmaco da 7 settimane a 9, da 49 a 63 giorni di gestazione, e di ampliare anche l’uso in regime ospedaliero, perché non si vuole di certo togliere competenza alle strutture che hanno acquisito esperienza e preparazione negli anni. Però in situazioni dove gli ospedali non ce la fanno (come nel caso della pandemia) perché si devono occupare di altro, penso si possa pensare ad allargare anche l’uso in day hospital”.

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