“Un luogo in prestito, per un tempo in prestito” è un’affascinante espressione per riferirsi a Hong Kong, coniata dallo scrittore britannico Richard Hughes negli anni ’70. Una terra di mezzo che negli ultimi giorni ha visto una rapida escalation delle tensioni ormai decennali nell’enclave occidentale in Cina. Tra la nuova legge sulla sicurezza che limita le libertà da sempre garantite alla ex colonia e la revoca dello statuto speciale da parte degli Usa, ci sono le proteste, gli scontri e gli arresti. La popolazione non accetta il colpo di spugna alla propria identità. Ma nei piani di Pechino, il tempo del prestito è scaduto: Hong Kong diventerà l’asse portante di un hub globale destinato a cambiare gli equilibri del commercio mondiale.

Nel 1997 la sovranità di Hong Kong fu trasferita dal Regno Unito alla Repubblica Popolare Cinese, chiudendo ufficialmente gli oltre 150 anni di dominio coloniale britannico. Sotto il principio “un Paese, due sistemi”, a Hong Kong erano state garantite per 50 anni libertà diverse da quelle della Cina continentale, tra cui libertà di espressione, elezioni governative locali e un apparato giudiziario autonomo basato sulla common law, il sistema anglosassone. Queste libertà concedevano inoltre alla ex colonia britannica uno status speciale sul piano internazionale, tra cui l’esenzione dei dazi sia nell’import che nell’export.

Un porto franco da cui transitano merci da e per gli Usa – Hong Kong è un porto franco e rappresenta la settima area commerciale del mondo, con un volume di circa 1,2 trilioni di dollari. Ma gran parte delle merci che transitano per le sue strade provengono da o sono dirette verso la Cina continentale. Nel 2018 l’8% delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti e il 6% delle importazioni cinesi dagli Usa sono transitate per Hong Kong. Per il commercio degli Stati Uniti, Hong Kong vale quasi 67 miliardi di dollari. La minaccia americana di considerare Hong Kong al pari della Cina continentale introdurrebbe nel commercio con l’ex colonia tariffe senza precedenti, comprese quelle collegate alla guerra commerciale tra Washington e Pechino. Ma la partita è molto più ampia.

La Cina usa la piazza finanziaria di Hong Kong per attrarre investimenti – Sebbene la nuova legge sulla sicurezza abbia messo in allarme oltre l’80% delle aziende americane secondo un sondaggio della Camera di Commercio Usa, Pechino intende preservare lo status di centro finanziario globale di Hong Kong, dal momento che anche le aziende della Cina continentale beneficiano della libera circolazione dei capitali e del suo settore finanziario. La Cina applica controlli e spesso interviene nei mercati e nel sistema bancario. Al contrario Hong Kong è una delle economie più aperte del mondo e una delle maggiori piazze di finanziamento, sia sul versante azionario che su quello del debito. Fino a questo momento la Cina ha utilizzato la moneta di Hong Kong e il suo mercato finanziario per attrarre investimenti esteri, mentre le imprese internazionali si sono servite dell’ex colonia come piattaforma per espandersi nel continente.

Le banche cinesi qui hanno attività per 1,1 trilioni di dollari – Nonostante la Cina abbia negli anni riformato i suoi mercati, oltre il 60% degli investimenti diretti esteri in entrata e in uscita dal Paese ha continuato a transitare per Hong Kong, secondo i dati di Morgan Stanley riferiti al 2018. Le banche cinesi detengono attività a Hong Kong per 1,1 trilioni di dollari, più di ogni altro soggetto finanziario, secondo i dati del 2019 della Hong Kong Monetary Authority. Hong Kong è stata anche uno strumento cinese per trasformare lo yuan in una valuta utilizzata internazionalmente, in competizione con il dollaro e ampliando la sua influenza globale. Grazie al suo sistema legale e finanziario, la città-Stato ha mantenuto il suo ruolo chiave di enclave occidentale in oriente, ma tutto questo, così come è stato conosciuto fino a oggi, potrebbe essere arrivato al capolinea a seguito dei cambiamenti introdotti a Hong Kong, e quelli del contesto cinese, degli ultimi anni.

Fino al 2019 la Borsa con più Ipo al mondo – Nel 2014 è stato lanciato il programma Shanghai-Hong Kong Stock Connect, che ha avviato l’integrazione tra il listino della Cina continentale e quello della ex colonia britannica, consentendo la negoziazione dei titoli tra le due Borse. Nel 2016 la stessa operazione ha coinvolto anche la Borsa di Shenzhen, permettendo lo sviluppo di un vibrante ambiente finanziario che oggi porta i tre listini cinesi a essere tra i primi cinque del mondo per raccolta di capitali nelle offerte pubbliche iniziali, ovvero la collocazione delle azioni sui mercati regolamentati. Dal 2015 al 2019 quella di Hong Kong è stata la Borsa mondiale a ospitare la maggior raccolta in termini di Ipo, offerte pubbliche iniziali per le società intenzionate a quotarsi sul mercato. Solo nel 2017 si è classificata al terzo posto. Lo scorso anno la raccolta ha sfiorato i 40 miliardi di dollari, circa la metà della raccolta complessiva delle Borse cinesi, su un totale di 159 società. Di cui più del 60% provenienti dalla Cina continentale. Quest’anno, per la prima volta negli ultimi sei, la Borsa di Hong Kong, con una raccolta di 3,2 miliardi di dollari, è fuori dal podio, scivolata al quinto posto nel mondo. Superata non solo dal Nyse e dal Nasdaq, i due principali mercati degli Stati Uniti, ma soprattutto da Shanghai, al momento al primo posto con una raccolta di 14 miliardi, e anche dal listino di Shenzhen, con 3,4 miliardi.

Ciò che però oggi conta agli occhi di Pechino è che la raccolta complessiva delle tre Borse cinesi sopravanzi quella combinata di New York, con 20,6 miliardi di dollari raccolti sulle sponde del Pacifico contro i 19,7 rastrellati sull’Atlantico. Perché i rapporti di forza, tra Pechino e Hong Kong, negli ultimi decenni sono radicalmente cambiati. L’economia di Hong Kong oggi è equivalente al 2,7% di quella cinese: un profondo ridimensionamento, in termini percentuali, rispetto a meno di 30 anni fa. I dati della Banca Mondiale indicano che nel 1993 l’economia di Hong Kong pesava per oltre un quarto rispetto a quella cinese, con un Pil di 120 miliardi di dollari per l’allora protettorato britannico e di 445 miliardi per la Cina. Nel 1997 l’incidenza percentuale era già scesa al 18,4 per cento. E se nel 2018 il Pil di Hong Kong risultava triplicato rispetto a 25 anni prima, con 364 miliardi di dollari, quello cinese nello stesso frangente è letteralmente esploso, incrementandosi di 30 volte e arrivando a 13,6 trilioni di dollari.

I piani di Pechino: creare un hub economico e demografico da 70 milioni di persone – Poche settimane fa, a metà maggio, la Banca centrale cinese e le Autorità di regolamentazione finanziaria hanno presentato un nuovo piano per facilitare i servizi finanziari cross-border, e gli investimenti tra Hong Kong, Macao e nove città della provincia del Guangdong. In virtù di questo programma, i residenti di Hong Kong e Macao hanno la possibilità di acquistare prodotti di gestione patrimoniale dalle banche cinesi, mentre gli abitanti delle città del Guangdong possono usufruire di prodotti finanziari venduti dalle banche di Hong Kong e Macao. Chiamato Wealth Management Connect, questo sistema è il quarto canale di investimento cross-border tra Hong Kong e la Cina continentale dal 2014, dopo quelli che hanno unito i mercati azionari e obbligazionari. E intende favorire ulteriormente l’evoluzione di Hong Kong come porta di ingresso finanziaria verso la Cina. “Il programma offrirà l’opportunità ai cittadini facoltosi di Hong Kong di diversificare il loro portafoglio con investimenti nel potenziale di crescita della Greater Bay Area, fornendo al contempo maggiori opzioni di investimento alla popolazione della Cina continentale”, ha dichiarato Witman Hung Wai-man, direttore della Shenzhen Qianhai Authority, secondo quanto riportato dal South China Morning Post.

La Greater Bay Area è l’ambizioso piano cinese che intende collegare le aree di Hong Kong e Macao con altre nove città della provincia del Guangdong, creando un hub economico e demografico da 70 milioni di persone e un’economia proiettata a 1,5 trilioni di dollari, in grado di superare già oggi la San Francisco Bay Area, ed entro il 2030 sorpassare la Grande Area di Tokyo, l’area metropolitana più grande del mondo. Se fosse un’entità economica indipendente, oggi la Greater Bay Area sarebbe la tredicesima economia del mondo, davanti alla Spagna e alle spalle della Corea del Sud. Nei piani della Cina quest’area si consoliderà come un’unica grande megalopoli hi-tech in grado di competere con la Silicon Valley e con l’area metropolitana di New York, combinando tecnologia, servizi finanziari e capacità produttiva, con diversificazioni e specializzazioni locali che nessuna delle aree concorrenti potrà vantare.

Hong Kong avrà il ruolo di centro finanziario, commerciale e logistico, Macao quello di centro turistico internazionale, complice l’industria del gioco, e di piattaforma per il commercio con i Paesi di lingua portoghese, come il Brasile. Guangzhou sarà un hub amministrativo, Shenzhen vedrà rafforzata la sua zona economica speciale e Dongguan si trasformerà da manifattura del mondo in hub tecnologico. Il governo ha già investito molto nelle infrastrutture di collegamento. Il ponte Hong Kong-Zhuhai-Macao, costato 10,6 miliardi di dollari Usa, ha una lunghezza di 55 chilometri ed è stato aperto nel 2018. Sempre due anni fa hanno preso avvio le corse del Guangzhou-Shenzhen-Hong Kong Express Rail Link, treno ad alta velocità che collega Hong Kong e Guangzhou in meno di 50 minuti, costato 5 miliardi di dollari. Ma l’integrazione non passa solo attraverso i collegamenti fisici, e così Hong Kong e Macao hanno fatto i conti negli ultimi anni con la promozione di nuova identità rispetto alla loro storia di colonie europee.

Ma il 40% degli abitanti si sente “hongkonger” – La crescita del peso specifico dell’economia cinese rispetto a quella di Hong Kong è stata accompagnata dall’impulso da parte di Pechino di un più profondo senso identitario cinese nell’ex protettorato britannico, con l’effetto collaterale di cementare l’identità particolare di Hong Kong e progressivamente trasformare il principio “un Paese, due sistemi” in un più instabile “un Paese, due nazionalismi”. Accelerando il processo di transizione che secondo gli accordi del 1997 avrebbe dovuto garantire a Hong Kong uno status speciale fino al 2047. L’Hong Kong Public Research Institute ha chiesto ai residenti della città-Stato quale fosse la loro identità: oltre il 40% ha risposto di sentirsi “hongkonger”, circa il 40% ha concordato su un’identità mista, meno del 20% ha dichiarato di sentirsi cinese. In particolare, l’identità pura di “hongkonger” è molto forte nei giovani, protagonisti delle proteste, tra i quali sfiora l’80 per cento. Ed è andata crescendo soprattutto negli ultimi anni.

Regno Unito pronto ad accoglierne 2,5 milioni – Circa 350.000 cittadini di Hong Kong detengono già oggi il passaporto britannico, e il Regno Unito si è dichiarato pronto ad accoglierli. Ma il primo ministro Boris Johnson si è spinto oltre, prospettando questa possibilità a ulteriori 2,5 milioni di persone con alcuni requisiti. Il nuovo sistema potrebbe offrire un visto per un anno, rinnovabile, con permesso di lavoro e un percorso verso la cittadinanza. “Molte persone a Hong Kong temono che il loro stile di vita – che la Cina si è impegnata a sostenere – sia minacciato”, ha detto Johnson. “Se la Cina continua a giustificare i loro timori, allora la Gran Bretagna non potrebbe in buona coscienza scrollare le spalle e andarsene”. Lo scorso 5 maggio Gran Bretagna e Stati Uniti hanno avviato i negoziati per un trattato di libero scambio: il commercio tra i due Paesi vale già 270 miliardi di dollari all’anno.

La Germania punta su Pechino – Diversa la posizione dell’Unione Europea, secondo partner commerciale di Hong Kong, dopo la Cina. La Germania è il maggiore partner europeo della città-Stato, con scambi commerciali che hanno superato i 15 miliardi di dollari nel 2019. Ma per Berlino risultano molto più importanti rapporti con Pechino, verso la quale invia quasi la metà delle esportazioni europee in Cina e con cui gli scambi commerciali superano di gran lunga i 200 miliardi di dollari. Dal prossimo luglio la Germania assumerà la presidenza dell’Unione, e a settembre ospiterà a Lipsia il presidente Xi-Jinping per un summit Cina-Ue, con l’obiettivo di chiudere il trattato commerciale in discussione tra le due parti da ben sette anni.

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