di Massimiliano Doniselli*

In che modo questa pandemia ha impattato sulle vite lavorative dei tecnici di laboratorio? È una domanda non molto gettonata, anche in questo periodo. Medici, infermieri, e operatori sanitari in genere, delle terapie intensive e di reparti simili hanno avuto, giustamente aggiungo io, la precedenza.

Esistono però altre figure, non meno importanti, che sono appunto i tecnici di laboratorio. E cosa direbbero se interrogati? Come la pandemia ha modificato il loro vivere la quotidianità lavorativa? Io posso rispondere per me e per un pugno di colleghi che mi hanno generosamente affidato questo onore/onere. Confrontandomi con le diverse sensibilità di molti di loro, sono emerse sensazioni e immagini che, come spesso accade, sono più rappresentative di pensieri e parole.

Noi turniamo sulle 24h, sette giorni su sette, tutto l’anno. Quando prestiamo servizio notturno, al netto del tanto o poco lavoro che possiamo trovare, constatiamo e viviamo un innegabile dato di fatto: la notte è silenziosa e buia. Il via vai di gente e di ambulanze che di giorno affollano e danno vita ai viali dell’ospedale, di notte scema, si affievolisce fino a scomparire.

Ed è proprio il frantumarsi di questa calma apparente, dove ogni suono rimbomba, dove ogni luce abbaglia, che ha segnato le prime settimane della pandemia. File di ambulanze si sono affollate davanti al nostro padiglione, ogni notte, tutte le notti. Ambulanze silenziose, con le loro luci blu filtrate attraverso le finestre ad indicare il loro arrivo, hanno dato la dimostrazione plastica di come una situazione apparentemente surreale e incredibile (all’inizio la pandemia era più o meno così per tutti) fosse terribilmente reale.

Stava accadendo davvero e ancora non si parlava di lockdown, di mascherine obbligatorie o di distanza sociale. Queste immagini, legate indissolubilmente alle sensazioni evocate, sono rimaste indelebilmente nella nostra memoria.

Altra sensazione che ha caratterizzato le settimane dai primi di marzo in poi, è quella di straniamento, evocata dal crollo sistematico delle nostre certezze e abitudini, sia interpersonali che lavorative. Le nostre procedure, i nostri ritmi, la nostra organizzazione, il nostro stare insieme, non sono mai stati considerati realmente provvisori. Negli anni certi modi sono stati interiorizzati come granitiche verità, come comportamenti naturali e non modificabili.

Il Covid ha riscritto buona parte di questo scenario. Il giorno prima ci si poteva toccare, si poteva parlare senza curarsi della distanza, si organizzavano interventi, terapie, procedure. Ma in pochi giorni è cambiata ogni cosa. Tutto ciò che in passato pareva urgente o necessario è stato rivisto e stravolto in funzione della pandemia. Tutto ciò che sembrava naturale, così naturale da essere considerato innato, è stato modificato in pochi giorni (delle volte in poche ore).

Col tempo ci si abitua a tutto, ci si adatta ad ogni cosa. Ma per adattarsi occorre tempo. Tempo per pensare, per aggiustarsi, per uscire da un modello mentale ed entrare in un altro. Tempo che nessuno ha avuto. Comportamenti e pensieri costruiti in anni, frantumati in pochi istanti. Modalità accettate e perfezionate nell’arco di una vita, riviste drasticamente in poche ore. E senza sapere come e quando se ne sarebbe usciti.

Altre cose potrebbero essere dette, ma queste sono le più rappresentative e indelebili che possiamo raccontare e testimoniare. Questa pandemia ha riscritto molte cose, al lavoro e a casa, e nulla di quello che si è vissuto potrà essere dimenticato. Ma forse è proprio questo un punto da considerare: perché dimenticare?

È accaduto. E siamo tutti dolorosamente consapevoli che accettare ciò che è stato, di qualsiasi cosa si tratti, è strettamente collegato all’idea di ricordare, di non dimenticare, di portare con sé.

* voce del Centro Trasfusionale del Sacco

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