Senza Cina non si va da nessuna parte. Massimo D’Alema torna in libreria con un saggio di geopolitica: Grande è la confusione sotto il cielo (Donzelli, 160 pp. 7,99 euro). Nostalgia da Farnesina per il leader maximo, l’unico esponente dell’ex Partito Comunista Italiano ad essere diventato presidente del Consiglio (1998-2000), nonché titolare degli Esteri nel secondo governo Prodi (2006-08). E la citazione, non a caso, per un lavoro in cui si esplora il declino dell’Occidente, lo stallo europeo, il contestato trumpismo statunitense, la revanche russa e infine l’ascesa della Cina, è una frase di Mao Tse-Tung. D’Alema molto più ad Est, molto più pechinese della Via della Seta di Di Maio, insomma. Grande è la confusione sotto il cielo fu la massima confuciana mutuata da Mao, con ulteriore spiegazione: “La situazione, quindi, è eccellente”.

Solco interpretativo del caos internazionale post guerra fredda che D’Alema pone in tutta la sua interezza dimostrando che l’ancora di salvezza dell’attuale situazione tra Paesi leader nell’economia è la buona vecchia Repubblica Popolare Cinese. Virus comunicato in tempo o meno, D’Alema, in un’introduzione lunga e articolata aggiornata alle ultime vicende pandemiche, in cui esercita l’antica virtù dell’analisi organica da vecchio Pci (per leggere il particolare c’è bisogno della spiegazione del tutto) esalta il dialogo necessario e convinto con il governo di Xi Jiping: “In questo libro si sostiene che la Cina non è in grado di rappresentare da sola il nuovo centro dell’ordine mondiale; ma anche che senza il dialogo con la Cina, un nuovo ordine, inevitabilmente multilaterale e policentrico, non potrà nascere”. Frasetta apparentemente retorica, interscambiabile con altre pedine nazionali (senza dialogo con Usa e Russia, ad esempio, nonostante tutto a 30 anni dalla Caduta del Muro, non vai da nessuna parte), che però assume un senso in chiave prospettica a diacronica: solo quindici anni fa all’epoca dei governi di centrosinistra tutta questa sinofilia era ancora legna da ardere nel caminetto di un domani incerto.

D’Alema per arrivare ad illustrare le virtù cinesi parte da un assunto di base importante più vicino a noi: l’ordine mondiale liberale è in crisi, ma non per eventi esterni, bensì per cedimenti interni. Si tratta dello sfracello sempre più conclamato del sistema ideologico “neoliberista” che D’Alema espone al pubblico ludibrio dialogando ipoteticamente più con Stefano Fassina o Carlo Formenti che con il ministro del Pd Roberto Gualtieri. Il vecchio ordine muore, spiega l’ex segretario del Pds ed uno nuovo non riesce a nascere, ecco allora il gramsciano “interregno”.

Facciamo un passo indietro perché almeno nella parte introduttiva sembrano baluginare lampi d’intesa sovranista, subito però sopiti e non trasformati in antieuropeismo. “L’egemonia neoliberista ha reso la società più liquida, ma anche più fragile e precaria”, ha “imposto il primato dell’economia e della finanza sulla politica” che tradotto in soldini europei significa come l’economia di mercato e “l’austerità” imposta per vie comunitarie istituzionali “ha indebolito il welfare” e il senso di comunità, che invece la Cina ancora possiede. Attenzione, se da una parte D’Alema affonda il coltello perfino contro l’ordoliberismo tedesco (l’agire del cancelliere Merkel viene ribattezzato merchiavellismo, in onore del celebre pensatore fiorentino e di una cinica ragion di stato), non siamo comunque dalle parti delle rivoluzione comunista novecentesca: “Non esiste capitalismo praticabile senza un forte sistema di servizi pubblici”. Ma proprio quando sembra che la critica dalemiana diventi uno Sturm und Drang contro l’eterodirezione teutonica di quelle istituzione europee che non funzionano (“la Banca Centrale Europea non ha come suoi obiettivi crescita ed occupazione”), ecco che la critica antisistema torna nell’alveo dell’esistente: “Continuo a pensare che la ragione di fondo della impasse europea non stia nel conflitto tra vincoli comunitari e sovranità nazionali. Ciò che va cambiato radicalmente è l’impostazione politica e vorrei dire culturale delle scelte dell’Unione, espressione di un pensiero unico liberista che è stato imposto come una sorta di verità tecnico-scientifica alla quale non ci sono alternative”. Insomma, è ora di tornare a politiche economiche keynesiane.

Ma non c’è il tempo di approfondire il come e il quando, di questo anelito socialista disperso tra le nebbie di quello che D’Alema definisce, a pagina 58, un “riformismo” che è in realtà una “controriforma”: “Questa nuova cultura si è imposta anche nel linguaggio, nel senso che la progressiva riduzione delle protezioni sociali prodotte dalle riforme del dopoguerra è stata chiamata ‘riformismo‘; nel senso che il pensiero neoliberista si è impadronito anche di parole e concetti che appartenevano alla tradizione socialdemocratica. La controriforma si è definita ‘riformismo’ e ha contribuito a generare un’enorme insicurezza sociale. è il malessere che percorre le nostre società a indebolire il ruolo del mondo occidentale”.

Eccoci tornati da capo: Occidente indebolito, la Cina è più vicina. Nessuna magia, ma molta analisi da realpolitik come si insegna nelle facoltà di scienze politiche. Campo aperto in cui D’Alema ancora eccelle con brillantezza e sagacia, condita spesso da aneddoti personali relativi ad incontri con grandi capi di Stato e intrecciando fili della storia mondiale, alla maniera dei grandi statisti. L’ex presidente del consiglio spiega che lo scenario mondiale che abbiamo di fronte è quello di un mondo plurale, dove non c’è più il dominio di una singola nazione su un’area di influenza, o uno scontro tra due superpotenze e relative divisioni del mondo pre 1989. Tanti i player nello scacchiere internazionale, ognuno con le sue peculiarità e le sue debolezze. Gli Stati Uniti di Trump (a cui viene dedicata l’aspra apertura del primo capitolo con l’uccisione di Soleimani) e la vecchia Russia putiniana, ma anche la Turchia di Erdogan e l’attuale Iran nuclearizzato. Infine, ovviamente la Cina.

Così se da un lato Putin non è descritto come un folle despota – il suo nazionalismo, spiega D’Alema, è “autentico e intenso”, citando il bacio delle sacre reliquie di San Nicola a Bari, in privato davanti a lui -, ecco il giovane Massimo, segretario Fgci a fine anni Settanta in gita a Pechino, prima ancora delle famose incursioni socialiste craxiane che fecero scandalo dopo il monologo di Beppe Grillo. L’adorazione dalemiana dell’ “armonia” confuciana non sembra suonare così autentica come il bacio putiniano del santo, ma tant’è, la seconda parte del capitolo cinque di questo agile volume è un bignami degli ultimi cinquant’anni di storia cinese, tra esplosione degli investimenti in Africa e competizione tecnologica con gli Stati Uniti, con un’esaltazione delle “modernizzazione” della Cina che stride con la critica nelle pagine precedenti ai “nazionalismi” europei e trumpiani: “Deng Xiaoping rimise in movimento quel grande paese nel segno di un processo, che si fece via via impetuoso, di trasformazione moderna e di sviluppo. Questo grande obiettivo si realizzò sulla base di un modello nuovo che combinava il dinamismo dell’economia di mercato con il primato della politica e dello Stato e con il governo autoritario ad opera del partito unico. Questo modello si è affermato non senza conflitti”. Gli scontri di piazza Tienanmen, ad esempio, o tutte le soppressioni di libertà individuali o legate alle tradizioni civili e religiose, che D’Alema cita ma che sembrano incidenti di percorso un po’ d’impiccio nello slancio modernizzatore messo in luce dal regime a partito unico cinese.

Questa la sostanza di Grande è la confusione sotto il cielo, saggio che ha però il suo apice nel capitoletto che D’Alema dedica al Mediterraneo a al Medio Oriente. Poche paginette che funzionano da abc sui conflitti in Siria e in Libia meglio di una qualunque schermata di wikipedia, e riaprono la squarcio storico infinito del conflitto arabo-israeliano e la mancata concessione della creazione di uno Stato palestinese. Ferita umanitaria e politica perennemente aperta che secondo l’autore rimane tutt’ora cruciale per i destini di pace nel mondo. Il segreto di una giusta mediazione e di un successo sfiorato, ricorda D’Alema, che ha il suo apice nel febbraio 1997 a Roma, durante l’Internazionale Socialista, presieduta proprio dall’allora segretario del Pds e alla quale parteciparono Arafat e Shimon Peres. Passaggio struggente, che rievoca la grande famiglia socialista internazionale novecentesca, trasversale oltre ogni nazionalismo, ma oramai cancellata dal neoliberismo imperante: “Quando arrivò Arafat fu data la parola a Shimon Peres affinché fosse lui ad accoglierlo. fu un discorso molto bello nel quale a un certo punto Peres disse: ‘Nei negoziati con i palestinesi abbiamo avuto sempre un problema. Non sapevamo come chiamare Yasser Arafat. I palestinesi pretendevano che noi lo chiamassimo rais, presidente, ma noi non lo volevamo riconoscere come tale. Adesso il problema è risolto: d’ora in poi ti chiamerò compagno”.

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