La scena ha tutti gli elementi per diventare paradigmatica. Nel 2014 il Bayern Monaco convoca in sede per un colloquio un ragazzo di 27 anni. Ci sono il presidente Karl-Heinz Rummenigge e il direttore sportivo Matthias Sammer. Anche l’allenatore Pep Guardiola si affaccia per spendere quelle due buone parole che non nega mai a nessuno. La proposta è di quelle difficili da rifiutare. Diventare team manager della squadra under 23 del club più blasonato di Germania. Il ragazzo ascolta, sorride, poi declina gentilmente. Sì perché in estate l’Hoffenheim gli aveva affidato la panchina dell’Under 19. E lui non sentiva questo bisogno impellente di lasciare la provincia. Quel ragazzo si chiama Julian Nagelsmann e ora, sei anni più tardi, è diventato uno dei tecnici più interessanti del Vecchio Continente. Tanto da diventare il candidato numero uno di Elliot per la panchina di Milan.

La consacrazione definitiva è arrivata lo scorso 10 marzo, quando il suo Lipsia ha eliminato il Tottenham negli ottavi di finale di Champions League grazie a un rotondo 3-0 (dopo la vittoria di misura dell’andata). Un successo che l’ha trasformato nel tecnico più giovane (32 anni, 211 giorni) ad aver vinto un match a eliminazione diretta nella storia della coppa delle grandi orecchie. Per molti è una sorpresa, per chi segue la Bundesliga è la conferma di un percorso che parte da lontano.

Perché Julian Nagelsmann è uno che ha dovuto sempre lottare più del previsto. Contro se stesso, contro i pregiudizi chi lo considera troppo giovane per arrivare a certi traguardi. Si affaccia al calcio giocando come difensore centrale. La prima squadra a mettergli gli occhi addosso è l’Augsburg. Poi, nel 2002, arriva il trasferimento al Monaco 1860. Il sodalizio con i Leoni sembra promettente: la fascia di capitano nell’Under 17 e una buona stagione in Primavera. Solo che il ginocchio non gli dà tregua. E giocare diventa una sofferenza troppo grande. Le operazioni servono sono ad anestetizzare i suoi tormenti con l’illusione di poter tornare in campo. A 20 anni Nagelsmann è già un ex. Così decide di tornare all’Augsburg. Lì potrà ritrovarsi. Lì potrà rilanciarsi.

Inizia ad allenarsi con le riserve, ma è tempo sprecato. Decide di smettere quando l’allenatore dell’Augsburg II gli avvicina. Si chiama Thomas Tuchel e ha un’offerta per lui. Il tecnico gli chiede di andare a studiare gli avversari per conto suo. E di redigere dei rapporti. Nagelsmann inizia a girare con dei quaderni voluminosi. Su un lato annota tutte le caratteristiche dei giocatori che osserva. Dall’altro descrive i loro punti deboli e come metterli in difficoltà. Poi torna in sede e mostra i suoi appunti ai calciatori dell’Augsburg. La cosa funziona. Tanto che Tuchel lo prende un’altra volta da parte e gli dice di diventare allenatore. La società lo accontenta e gli offre la panchina dell’Under 12. Troppo poco per uno come lui.

Così Nagelsmann compie un’altra volta il tragitto inverso. Di nuovo Monaco 1860. Di nuovo l’Under 17. Ma stavolta come tecnico. Julian ci resta due anni. Fino a quando il suo telefono non inizia a squillare. È l’Hoffenheim. E gli offre la panchina dell’Under 16. Una stagione dopo ha il pieno controllo del settore giovanile. Ma la vera svolta arriva nel febbraio 2016. Il tecnico Huub Stevens ha problemi cardiaci. Meglio non andare avanti. La dirigenza, che aveva pensato di promuovere Nagelsmann in estate, decide di bruciare le tappe. Quando quel ragazzo di 28 anni si siede per la prima volta in panchina l’Hoffenheim è penultimo con 14 punti in 20 partite e 7 lunghezze di ritardo dalla zona salvezza. A fine stagione saranno salvi, con un onorevole quindicesimo posto.

È allora che il calcio di Nagelsmann comincia a diventare cibernetico. L’allenatore fa riprendere gli allenamenti dai droni, sceglie i nuovi acquisti guardando dvd indicizzati in base alle caratteristiche che servono alla squadra. Poi fa installare sul campo di allenamento un maxischermo 6 metri per 3 e quattro telecamere. Il ledwall diventa fondamentale per mostrare ai suoi giocatori errori di posizionamento, i movimenti che saranno chiamati a compiere nelle due fasi di gioco e le caratteristiche degli avversari. Le statistiche diventano parte essenziale del lavoro settimane. Ce n’è una che testimonia alla perfezione la sua cura per i dettagli: Nagelsmann e il suo staff misurano per quanto tempo ciascun giocatore è impossibilitato a ricevere un suggerimento dal compagno perché gli avversari bloccano la linea di passaggio.

Ma soprattutto, l’Hoffenheim diventa una delle prime squadre al mondo ad usare Footbonaut, una gabbia di 20 metri per 20 delimitata da una griglia. Ogni giocatore deve stoppare la sfera lanciata da una macchina sparapalloni e calciarla nel riquadro che si è acceso. Un modo per allenare tecnica e riflessi allo stesso momento. Ciascun componente della rosa segue un programma personalizzato in base al ruolo che ricopre e alle caratteristiche da migliorare. Gli sforzi sembrano dare i loro frutti. Nelle tre stagioni successive Nagelsmann guida l’Hoffenheim al quarto, al terzo e al nono posto.

Nel 2018 Ralf Rangnick lo sceglie come suo successore al Lipsia. Poco prima, però, Nagelsmann aveva ricevuto una telefonata dal Real Madrid. Un nuovo colloquio. Un altro no. “Qui ho la possibilità di sbagliare e imparare. Questo non accade nei grandi club. Lì se non vinci loro non ti chiedono come mai, ti licenziano“. Il Real sarà anche il futuro, ma il presente si chiama Lipsia. Qui Nagelsmann si sente libero. Torna a casa con uno skateboard elettrico, quando può si rifugia in una montagna vicino Lipsia e spegne lo smartphone. Niente telefonate, niente messaggi. Solo snowboard, un po’ di sci, un’arrampicata. E tanti tramonti da ammirare. Istanti di solitudine in una vita passata a tenere insieme un gruppo.

“Il 30% dell’essere allenatore è tattica, il restante 70% è dato dalle competenze socio-relazionali – ha detto alla Sueddeutsche Zeitung – ogni giocatore è motivato da fattori diversi e deve essere stimolato in modo diverso”. Ma la frase spot è un’altra: “Sono come un pasticciere, mescolo cose diverse, le metto in forno e vedo cosa viene fuori”. In campo le sue parole d’ordine sono flessibilità e verticalità. Il suo Lipsia è una squadra fluida, capace di cambiare e adattarsi all’avversario di partita in partita ma anche nel corso di una stessa partita. I moduli non sono così importanti (fin qui ne ha cambiati sei, giocando con la difesa a quattro e con quella a tre), anzi. “Le differenze fra 4-4-2 e 4-3-1-2 è una questione di 5 o 10 metri – dice – le squadre si schierano in quel modo solo durante il calcio d’inizio e forse 8 volte a partita”.

Adattarsi, però, non vuol dire non avere un’identità precisa. La sa filosofia di gioco può essere riassunta in poche pillole: palla a terra, ricerca della verticalità, avvicinamento alla porta avversaria tramite fraseggi corti e veloci che prevedono due giocatori in soccorso del portatore di palla con movimenti opposti, in modo da garantire una linea di passaggio. Senza dimenticare il pressing asfissiante per recuperare la sfera persa in zona offensiva. “All’inizio il Lipsia sembrava quasi cercare di perdere il pallone per poi recuperarlo in situazioni che possono creare occasioni da gol – ha raccontato – io metto molta enfasi sul nostro comportamento quando non abbiamo il possesso, ma io non provocherò mai una perdita del possesso. Oggi hai bisogno di tutte e due le cose: soluzioni con e senza palla“. Un sogno a occhi aperti per i tifosi del Milan.

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