Questo servizio è stato girato prima dell’emergenza coronavirus

Sei allevatrici (per ora) di Marche, Umbria, Abruzzo e Lazio, unite per la sopravvivenza della pecora sopravvissana e soprattutto per dare un incentivo, e magari un lavoro, alle tante donne del sisma che dopo il terremoto del 2016 hanno perso tutto. È il progetto racchiuso nel nome “Sibillana”, dal monte Sibilla, portato avanti da Silvia Bonomi, proprietaria dell’azienda agricola La Sopravvissana di Visso, Giulia Alberti, della fattoria La Rocca di Montefortino, unica “filatrice” del gruppo, Elena Mottola, di Grottammare, Annalisa Perelli, titolare di un’azienda agricola con fattoria didattica e sociale, Maria Pulcini, del Lazio, e Carla Piciurro, anche lei del Lazio e “mastra casearia” della squadra.

“Ripartire dopo il sisma (del 24 agosto e 26 e 30 ottobre 2016 ndr.) non è stato semplice – racconta Silvia Bonomi al Fattoquotidiano.it – Per prima è stata danneggiata la nostra casa e poi l’azienda agricola. Gli animali sono rimasti senza un tetto”. Silvia, infatti, a causa delle scosse è finita per quasi due anni a vivere in un Mapre, un Modulo abitativo prefabbricato rurale emergenziali. Una situazione, che, racconta “si è ripercossa anche sulla salute”. “Era in pratica una scatola di latta – spiega – c’erano muffe e anche topi sotto la pianta. E io ho avuto un grave episodio neurologico dovuto probabilmente alla presenza di muffe“. Nonostante questo non si è persa d’animo decidendo di continuare a coltivare il suo sogno di allevatrice di pecora sopravvissana, una razza che rischia l’estinzione. “Oggi abbiamo 150 esemplari e abbiamo deciso di metterci in rete con altre donne e avviare un progetto per la riqualificazione della lana sopravvissana, che è particolarmente pregiata”, sottolinea, spiegando che l’intento non è solo quello di “trovare un punto comune”, ma anche “esaltare le singole diversità”. “Il lanaggio di questo tipo di pecora – precisa Giulia Alberti al Fatto.it, unica tra le donne del progetto che metterà a disposizione un piccolo lanificio ora in costruzione – è di qualità altissima. Per questo abbiamo pensato alla filiera corta per valorizzare il prodotto”. Spesso infatti la lana viene svenduta dagli allevatori alle grandi aziende, oppure smaltita come rifiuto speciale. Tra le particolarità del progetto c’è la volontà di estenderlo alle donne che hanno “difficoltà a trovare lavoro”, non solo quelle del cratere ma “comunque provenienti dalle quattro regioni colpite”. “Coinvolgeremo per esempio donne che sono capaci di lavorare a maglia – prosegue Giulia – L’intento è anche quello di sostituirci agli psicofarmaci che hanno preso il sopravvento nella vita di molte persone. Un lavoro manuale in sostituzione di…con la speranza di portare benessere in questi territori”. Arrivare al punto in cui sono ora, con un marchio registrato e una “filiera rosa” già instaurata, senza aiuti, non è stato semplice. A pesare, spiegano sia Giulia che Silvia, “è stata soprattutto la burocrazia”. “Fare tutto senza sostegno è stato l’amaro in bocca della vicenda – conclude Silvia Bonomi – La domanda che ci viene spontanea è: ‘Se non vengono favoriti progetti di questo tipo in queste zone, chi è che passa avanti?”.

Articolo Precedente

50 sfumature di haters: una carrellata per distinguerli e ‘apprezzarne’ le qualità

next
Articolo Successivo

Coronavirus, tra Oms e Ricciardi scoprire la verità sul virus è diventata un’impresa

next