“Noi non stiamo a casa dal 24 agosto 2016”. Sono le parole scritte su un lenzuolo bianco appeso in uno dei tanti edifici pericolanti di Arquata del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno. Racchiudono tutto il dramma degli oltre 47mila sfollati del Sisma del Centro Italia. Tra questi ci sono circa 11mila persone, famiglie, coppie ma anche anziani, che da quasi quattro anni vivono in Soluzioni abitative d’emergenza, alberghi o addirittura container e che oggi, a causa della pandemia da coronavirus, sono costretti a passare lì, in luoghi piccoli, magari pericolanti, e soprattutto difficili da definire come “casa”, la loro quarantena obbligata. Per loro quest’emergenza è “un terremoto dentro un terremoto”. “Una ferita che si è riaperta”, spiega al Fattoquotidiano.it Elena Pascolini, psicologa e fondatrice dell’associazione Monte Vector, anche lei domiciliata al “Borgo 1”, il villaggio Sae di Arquata. A soffrire di più le conseguenze dell’isolamento sono anziani e bambini, che proprio nei momenti aggregativi, ora negati, riuscivano a farsi forza per il trauma subito con il terremoto. Rimanere in casa, però, qui è più che mai categorico, soprattutto perché gli spazi sono piccoli, e il distanziamento sociale è praticamente impossibile: un singolo contagio potrebbe far nascere un focolaio. Il tutto si aggrava se ci si sposta nei villaggi container, come a Tolentino dove oltre 200 persone, spiega Dario Matteucci, del Comitato 30 ottobre, vivono in spazi di 2 metri per 5, con servizi igienici e mensa in comune. “Nessuno qui ha previsto un piano sanitario particolare – sottolinea al Fatto.it Matteucci – hanno solo rafforzato i ‘controlli’ mettendo una recinzione con una specie di posto di blocco per evitare spostamenti in entrata e uscita”. L’incognita più grande, comunque, è quella del “post Covid”. Il timore è che la ricostruzione, già lenta, possa bloccarsi del tutto. La speranza, invece, almeno del sindaco di Camerino, Sandro Sborgia, uno dei comuni più colpiti, è che il governo “non sia miope” e punti tutto proprio su questi territori: “Tra Marche, Lazio, Umbria e Abruzzo siamo il cantiere più grande d’Europa – dice al Fattoquotidiano.it – Allora perché non far ripartire da qui l’economia?”.

La vita nelle Sae tra il terrore dei contagi e l’incognita ricostruzione: “Difficile ora parlare di resilienza”

Sono oltre 8000 le persone che, secondo i dati della Protezione civile raccolti il 14 febbraio, ad oggi vivono ancora nelle Soluzioni abitative d’emergenza. Piccole casette in legno che ormai hanno perso il loro carattere emergenziale e che spesso hanno sostituito interi paesi, rasi al suolo dal sisma, come ad Arquata del Tronto. “Qui tutti viviamo nelle Sae – spiega Elena Pascolini che insieme al compagno sta provando ad aiutare il territorio promuovendo il “turismo sostenibile” – Hanno una metratura di 40, 60 o 80 metri quadrati, a seconda del nucleo familiare ma sono divise male. Le difficoltà sono molte e si sommano a un trauma precedente che non è mai stato assorbito”. Nel villaggio “Borgo 1”, il più grande di Arquata, dove vive Elena, la comunità è costituita soprattutto da anziani e l’attenzione maggiore è rivolta a loro. “Con il terremoto hanno perso le abitudini di una vita – racconta ancora Elena che sui social ha lanciato l’hashtag #iorestoinsae – Hanno bisogno di farsi compagnia, magari passando da una Sae all’altra, o stando al bar. E ora non possono”. Consapevoli del rischio che si correrebbe se anche solo una persona del villaggio venisse contagiata, spiega Elena, “non solo abbiamo spiegato a tutti le misure igieniche, ma abbiamo cercato di impedire il più possibile l’andirivieni dei familiari”. Così alcune persone hanno smesso di andare al lavoro, mentre altre, impossibilitate a fermarsi, stanno continuando a lavorare, prendendo tutte le precauzioni possibili. “Questa misura di autotutela – continua – per noi ha significato molto. Un solo caso creerebbe un effetto domino sugli anziani devastante”. Tra le varie problematiche legate al post terremoto, infatti, questi territori hanno dovuto fare i conti anche con lo spopolamento. Molte famiglie, come quella di Elena, hanno deciso di rimanere e di portare avanti i propri sogni e i propri progetti, ma per lo più sono rimasti gli anziani, troppo attaccati all’entroterra per “fuggire” verso la costa, ma allo stesso tempo oggi soggetti più a rischio per il Covid-19. Tutti però sembrano aver capito la gravità della situazione, tanto che non è difficile imbattersi in “conversazioni alla finestra” tra le signore che prima erano abituate a incontrarsi tutti i giorni. Anche quando si va a fare la spesa nelle due botteghe più vicine, aperte a turno, “tutti si imbacuccano”. Nessuno si spinge fino ad Ascoli Piceno o al vicino supermercato di Acquasanta per evitare possibili contagi.

Oltre alla paura del Coronavirus, si aggiunge quella del “post Covid”. “Come la nostra associazione che cerca di lavorare con il turismo sostenibile – sottolinea Elena al Fattoquotidiano.it – qui ci sono intere famiglie che vivono solo di quel poco turismo che vede proprio in questo periodo (quello cioè della fioritura di Castelluccio ndr.) la sua stagionalità”. Sono persone che dal terremoto “si sono azzerate anche economicamente”, e per loro una sola stagione persa, dice ancora Elena, “potrebbe essere il colpo finale” e rischierebbe di “far andar via chi ha deciso di resistere”. A preoccupare è anche la ricostruzione: “Qui ancora non c’è neanche una gru – spiega Elena – Ci domandiamo se questa emergenza possa diventare l’ennesima scusa per bloccare tutto ancora”. “Qui tutti sono stati invitati alla resilienza – conclude – ma se sottoponi un metallo a uno stress ulteriore come fa questo a riprendere la sua forma originale?”.

La stessa paura si percepisce anche nel villaggio Sae di Muccia. A raccontarlo al Fatto.it è Antonella Pasqualini che lì ha l’unica tabaccheria del paese oltre a un’attività di gestione di pratiche assicurative e che ogni giorno fa fatica ad andare avanti. “Se lo Stato ha difficoltà a trovare mascherine – si chiede Antonella – come posso pensare che finita quest’emergenza riuscirà a trovare i soldi per ricostruire casa mia?”. Il problema maggiore, secondo Antonella, è la vivibilità di queste casette. Proprio lei insieme a tanti altri abitanti del borgo in provincia di Macerata, ormai distrutto con il sisma, ha denunciato negli scorsi anni i gravi danni strutturali di queste soluzioni abitative. “L’umidità le rovina ciclicamente – spiega al Fattoquotidiano.it – Il pavimento si apre e a mio figlio quando colora per terra si bagna il foglio. In pratica siamo prigionieri del niente“. Anche la privacy è un problema: “Non puoi vedere due trasmissioni diverse con il vicino né avviare una lavatrice – sottolinea – si sente tutto. Prima avevamo una valvola di sfogo fuori, qui dentro invece impazzisci“. Anche fare i conti con il passato non è semplice. “Ho letto di gente che approfitta della quarantena per rispolverare le vecchie foto o i vecchi diari – conclude Antonella – Ma noi qui non abbiamo più neanche i ricordi“.

La città container di Tolentino: “Qui il rischio contagi è altissimo, mense e bagni in comune”

Nei container di Tolentino, arrivati nella città in provincia di Macerata al posto dei consueti moduli abitativi post-terremoto, l’epidemia da coronavirus potrebbe trasformarsi in un disastro sanitario. “Le persone qui vivono in spazi di due metri per cinque – spiega al Fattoquotidiano.it Dario Matteucci vicepresidente del Comitato 30 ottobre – Spesso sono anche padre, madre e un bimbo. Hanno bagni e mensa in comune e la promiscuità ovviamente c’è”. Sono oltre 400 gli sfollati che ancora vivono in città container, oltre 200 solo quelli di Tolentino, abbandonati in questo luogo a pochi chilometri dal centro abitato. Tanti sono anziani ma ci sono anche molte famiglie, soprattutto di extracomunitari. “Oltre ad aumentare il rischio contagio – sottolinea ancora Matteucci – Anche volendo se un positivo dovesse stare in quarantena non ci potrebbe stare”. La comunicazione da parte del Comune delle misure igienico-sanitarie da dover tenere c’è stata ma, dice ancora il vicepresidente, “non si possono rispettare appieno negli ambienti comuni”. Le misure sanitarie aggiuntive per evitare un eventuale focolaio, invece, sono state pari a zero. “Hanno distribuito le mascherine e poi li hanno isolati ancora ‘segregandoli’ con una recinzione – spiega ancora Matteucci – Alla fine della rete c’è una specie di box da cui vengono controllati ingressi e uscite”. Una situazione limite che il Comitato 30 ottobre, con una lettera aperta, ha portato all’attenzione sia della prefettura della provincia di Macerata che al ministro della Salute, Roberto Speranza. “In questa pandemia abbiamo già imparato che non sono i muri né le recinzioni che ci possono proteggere ma solo i comportamenti e la distanza tra le persone. Queste condizioni non sono garantite presso il villaggio container né potranno esserlo con interventi fiacchi e improvvisati – si legge nel testo – Chiediamo pertanto che vengano presi al più presto incisivi provvedimenti, anche considerata la presenza di fasce deboli di cittadini, come bambini e anziani”. Se per gli abitanti delle Sae la ricostruzione sembra lontana, per le persone del villaggio container la prospettiva sembra essere ancora più lunga: “Delle famose 200 abitazioni che il comune di Tolentino doveva costruire dopo il terremoto – conclude Matteucci – ne sono state consegnate solo 10 dopo 3 anni e mezzo. La verità è che molte non verranno mai consegnate”.

A Camerino un ospedale Covid. Il sindaco: “Conversione necessaria, ma dopo l’emergenza si tenga conto del sacrificio di questo territorio”

Dall’8 marzo a Camerino il suono delle sirene delle ambulanze è aumentato. Proprio qui, nel cuore del cratere del sisma del 2016, la Regione Marche ha deciso di riconvertire l’ospedale in presidio Covid. “Nessuno mette in discussione la necessità, era una struttura facilmente riconvertibile – spiega al Fattoquotidiano.it il primo cittadino Sandro Sborgia – Ma andava spiegata e soprattutto bisognava tenere conto che per questa popolazione l’ospedale era uno dei pochi servizi rimasti”. Molti i dubbi dei terremotati sulla riconversione del presidio sanitario che oltretutto ha come bacino d’utenza tutto l’entroterra maceratese, una delle zone più colpite dal sisma. “È anche l’unica struttura antisismica di tutta la provincia – specifica il sindaco – Forse la scelta andava ragionata meglio, magari lasciando aperta un’ala per le necessità dei cittadini non positivi”. Ora, in pratica, per un qualsiasi intervento bisogna spostarsi sulla costa. “Ai cittadini che hanno già subito il sisma – prosegue ancora Sborgia – Ora gli si chiede un ulteriore sacrificio. In pratica è un terremoto dentro al terremoto“. Al sacrificio, secondo il primo cittadino, dopo l’emergenza dovrà corrispondere una risposta pronta dello Stato. “Ora la ricostruzione, che già marciava al rilento, è bloccata (visto il decreto che ha bloccato tutti i cantieri in Italia ndr.) – dice ancora il primo cittadino – Ma credo che questa situazione possa insegnarci molto soprattutto sul fatto che nell’emergenza bisogna agire con intelligenza. E che non si può ripartire rimanendo legati ai lacci burocratici”. La soluzione, conclude Sborgia, potrebbero darla proprio le zone del terremoto. “Noi siamo il più grande cantiere d’Europa – chiosa – E se si deve pensare a un luogo da dover far ripartire la macchina economica, perché non questo con i suoi cantieri edili? Non vedere quest’opportunità vuol dire essere miopi“.
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