Addio al solare termodinamico con la tecnologia italiana a sali fusi. Le centrali elettriche alternative al solare fotovoltaico, che con la tecnologia a olio sono diffuse in altri paesi tra cui la Spagna, rimarranno sulla carta. Senza possibilità di sviluppo concreto. La prova è arrivata con lo scioglimento dell’associazione di settore Anest, che lamenta si essere stata affossata da burocrazia, proteste locali contro lo sfruttamento di suolo e mancata approvazione del decreto con gli incentivi per il comparto. Intanto altri Paesi corrono e applicano il nostro know-how. Come la Cina, che da anni ha messo il turbo agli investimenti in fonti di energia alternative. Il Covid-19 ha solo temporaneamente rallentato, ma non fermato la corsa. La multinazionale dell’energia Shanghai Electric si è per esempio appena aggiudicata la realizzazione della centrale solare termodinamica Dewa di Dubai.

Il solare termodinamico permette di creare centrali che raccolgono e concentrano il calore del sole con degli specchi per produrre vapore e quindi elettricità. La tecnologia a sali fusi, ideata dal premio Nobel Carlo Rubbia e sviluppata dall’Enea, permette di farlo in modo del tutto pulito. Un sistema che ha attratto l’interesse di diverse aziende (Maire Tecnimont, Enel Green Power, Innova Solar Energy, Reflex, Techint, Turboden, Archimede Solar Energy), di cui molte si erano unite nell’associazione Anest. Ma all’inizio di febbraio i membri dell’associazione hanno gettato la spugna. “Eravamo rimasti in tre, fra cui Archimede Solar Energy che però al momento ha sospeso l’attività”, racconta al fattoquotidiano.it Gianluigi Angelantoni, presidente di Anest e presidente e amministratore delegato del gruppo Angelantoni che controlla la Archimede Solar Energy. “Un’associazione non aveva più senso. Per noi, soprattutto senza Fer 2, non ci sono prospettive concrete. Anche se uscisse ora non servirebbe, i progetti autorizzati non ci sarebbero più”.

Non ci sono più nemmeno i soldi messi in campo dalle società che puntavano sullo sviluppo del solare termodinamico a sali fusi in Italia: oltre 300 milioni di euro investiti che difficilmente saranno recuperati. “Noi con Archimede abbiamo speso circa 80 milioni, Enea altri 100-120 milioni per la ricerca e sviluppo, Enel con l’impianto siciliano di Priolo 60-70, Reflex 12, Energogreen oltre 10 e così via”, dice Angelantoni.

Il solare termodinamico, nella sua tecnologia iniziale, utilizza olio diatermico ed è usato in Paesi come Stati Uniti, Cina, Sudafrica, Israele, Marocco, Kuwait, Spagna. Quest’ultima conta il maggior numero di centrali (una cinquantina da 50 Megawatt l’una) e società di ingegneria all’avanguardia del settore. Da noi sono state realizzate solo centrali di piccola scala (5 MW) a scopo di ricerca o test, ma nessun impianto commerciale di grandi dimensioni. E questo ha messo l’Italia fuori dai giochi. Le grandi commesse ottenibili all’estero tramite gara (per esempio in Arabia Saudita o negli Emirati Arabi Uniti) erano infatti aperte ad accogliere la tecnologia italiana ma solo con delle referenze su impianti commerciali già realizzati e di grandi dimensioni, almeno 50 MW. “I target italiani dovevano essere come la centrale da 600 MW che la Dubai electricity and water authority (Dewa) sta realizzando. Questa commessa vale un totale di 4,5 miliardi di dollari e il progetto poteva promettere per le imprese italiane un fatturato da 1 a 1,5 miliardi”, sostiene Angelantoni. “Ma tra le prime 35 aziende in lista come contractor non c’è nessuna italiana. È una delusione per un paese come il nostro che ha le più avanzate conoscenze tecnologiche del settore”.

In Italia, infatti, si studia il solare termodinamico da oltre un secolo mentre l’invenzione degli specchi ustori viene fatta risalire addirittura ad Archimede. Nel 2000 la tecnologia che usa olio diatermico venne innovata da Rubbia con l’utilizzo dei sali fusi e riproposta con il lancio dei progetti Archimede di Enea e di Enel a Priolo Gargallo. L’utilizzo dei sali fusi al posto dell’olio come fluido per veicolare, attraverso dei tubi, il calore del sole verso una caldaia con un impianto per immagazzinare l’energia rende la tecnologia al cento per cento pulita e più efficiente: si possono raggiungere temperature sopra i 550 gradi Centigradi contro i 400 massimi dell’olio.

Chi ha creduto in questo sistema italiano nonostante l’assenza di realizzazioni commerciali? La Cina. Archimede Solar Energy, infatti, ha prodotto tubi per centrali a energia solare termodinamica nella provincia di Gansu con un progetto che prevede l’installazione di 500 MW al 2025. “Ma abbiamo un vincolo di local content”, ci dice Angelantoni: “Dobbiamo produrre in Cina se vogliamo servire le loro centrali e esportare i tubi in altre nazioni. Per questo al momento abbiamo sospeso la produzione in Italia e stiamo definendo un piano di trasferimento in Cina tramite un accordo con una società locale. Lo facciamo nostro malgrado”. Anche la veneta Reflex ha venduto la sua tecnologia degli specchi parabolici ai cinesi, per l’uso esclusivo in Cina.

Il piano per sviluppare il solare termodinamico in Italia ruotava intorno alla Sardegna e alla Sicilia. Per la Sardegna si prevedevano inizialmente quattro centrali da 50 MW ciascuna che avrebbero dovuto gradualmente mandare in pensione gli impianti a carbone, con tanto di beneplacito di Legambiente. Ma i progetti sono stati bloccati dalle proteste di alcuni Comitati locali (per lo sfruttamento di suolo che avrebbe potuto essere destinato ad agricoltura e pastorizia e la deturpazione del paesaggio, obiezioni che Anest ha sempre smontato) e alla fine nessun impianto è mai stato costruito. Maggiore l’accettazione dei nuovi progetti in Sicilia, ma il risultato non cambia. Anche qui le centrali previste erano tre per un totale di 100 MW: due sono state già convertite al solare fotovoltaico e il terzo progetto è fermo nel limbo.

“Abbiamo sofferto dello scollamento tra le istituzioni centrali – soprattutto i ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente – e quelle locali. Su questi temi energetici, salvo i megaimpianti, decidono le Regioni e ognuna ha le sue regole”, spiega Angelantoni. “E poi c’è troppa burocrazia. Nel 2012 era arrivato un decreto governativo che incentivava il settore ma non è mai stato attuato”: le autorizzazioni dei progetti da parte degli enti locali hanno richiesto troppo tempo e hanno fatto scadere il decreto. A fine giugno 2016 è arrivato un nuovo decreto, ma l’iter attuativo ha lasciato solo tre mesi alle aziende per reperire i finanziamenti e alle banche per svolgere la due diligence. Una missione impossibile: 50 MW costano 300 milioni e il decreto esigeva dalle imprese una fideiussione bancaria pari al 10% del valore dell’impianto per partecipare all’asta.

Una vera occasione persa, fanno notare le aziende, visto che la tecnologia italiana non danneggia l’ambiente e una centrale da 50 MW dà lavoro a 1.500 persone per la realizzazione (circa 2-3 anni) e ad almeno 120 per 25-30 anni per la gestione e l’utilizzo. C’è anche il rammarico per la delocalizzazione industriale forzata. “Degli investimenti italiani ora approfittano altri paesi come la Cina, che si trovano tutto il lavoro già fatto e pagato dai nostri contribuenti: tecnologie, conoscenze e formazione”, sottolinea Angelantoni. “Vent’anni di nostra ricerca che volano all’estero”.

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