di Massimo Scura*

Il dibattito sulla diffusione del Coronavirus si è concentrato principalmente sulla polemica politica tra governo e Regioni e tra Regioni e Comuni. Analizzando il fenomeno sotto il profilo dell’organizzazione sanitaria, si possono fare ben altre considerazioni. Mentre il numero dei contagi dipende spesso da fattori esterni al servizio sanitario regionale, quali la densità della popolazione, la mobilità della stessa, i rapporti commerciali con la Cina, i comportamenti individuali dei cittadini, il numero di decessi, invece, dipende quasi esclusivamente dalla capacità del sistema sanitario regionale di gestire il paziente dal momento del contagio fino alla guarigione, nel migliore dei casi o alla sua morte, nel peggiore.

La Lombardia, al 12 maggio, annoverava un numero di 15.116 decessi (la metà dei decessi italiani) su 82.904 contagi totali (dati Protezione civile). Ossia il 18,2% dei contagi accertati ha avuto un esito nefasto. Questa percentuale scende al 14,4% in Emilia Romagna, all’11,9% in Piemonte, al 10,8% in Toscana e al 9% in Veneto.

Per la verità il denominatore dipende dai casi cercati (tamponi) e più questi sono numerosi, minore è la frazione. Prendendo allora quale denominatore la popolazione residente, la Lombardia conta 15 decessi ogni 10mila abitanti, uno ogni 230 famiglie; l’Emilia Romagna 8,7; il Piemonte 7,6; il Veneto 3,4; la Toscana 2,6. Eppure la sanità lombarda è considerata dai più, anche da me, una sanità di primissimo livello.

Infatti, il saldo della mobilità interregionale (rapporto Gimbe n.6/2019) che misura la migrazione di pazienti verso regioni diverse da quella di residenza, nel 2017 per la Lombardia è stato positivo per 784 milioni di euro. L’Emilia Romagna ha avuto un saldo di 307 milioni, il Veneto di 143, la Toscana di 139 e il Piemonte un saldo negativo di 51 milioni di euro.

Questa apparente anomalia lombarda, tra saldo mobilità, sinonimo di qualità e decessi per Covid-19 nasce da una cultura sanitaria ospedalocentrica. La Lombardia, unica in Italia, ha mantenuto fino al 2015 un sistema “non integrato” che distingueva nettamente i produttori di servizi, le aziende ospedaliere, dagli erogatori, le Asl. La parte sociale afferiva addirittura a un diverso assessorato.

Per ovviare alla difficoltà di integrazione ospedale-territorio e sociale-sanitario, la nuova Lr 23/2015 ha previsto l’unificazione dei due assessorati – sanitario e sociale – in quello del welfare. Le vecchie 15 Asl sono state accorpate in 8 Ats (Agenzie tutela della salute) che governano 27 Aziende sociosanitarie territoriali “Asst” (l’evoluzione delle Aziende ospedaliere, anche se permangono le vecchie Aziende ospedaliere con oltre mille posti letto). Ciascuna Asst governa anche un distretto per la gestione, tra l’altro, delle cure primarie e annovera un Direttore dei servizi sociosanitari. La presenza dei Comuni nel sistema complessivo dovrebbe facilitare l’integrazione del sociale.

Il Veneto ha da anni organizzato sul territorio il cosiddetto “Distretto forte”, ossia il luogo dove la rete dei servizi sociosanitari e sanitari territoriali e l’accesso a tutti i servizi dell’Azienda Ulss trovano unità. La nuova Lr 19 del 25/10/2016 ha accorpato le vecchie 21 “Usline” in 9 Aziende Ulss e, oltre a un un incremento del 15% di posti letto ospedalieri, ha previsto un aumento del 60% di medici di medicina generale.

La vera qualità in sanità si misura soprattutto sul territorio. Un malato di Alzheimer o di Sla o un sofferente psichico è tale 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno e fa ammalare anche chi lo assiste a casa. Un anziano non autosufficiente ha diritto di vivere i suoi ultimi anni nel miglior modo possibile in una Rsa o, meglio ancora, a casa; così pure un malato terminale oncologico alternando la presenza in un Hospice a quella domiciliare.

Quattro bypass coronarici sono certamente sensazionali, ma si esce dalla fase acuta in sesta giornata e dalla riabilitazione cardiologica dopo tre settimane. Prima e dopo la fase acuta e post-acuta si è a carico del sistema territoriale.

La Lombardia ha posto attenzione più alla sanità ospedaliera, economicamente più vantaggiosa, che a quella territoriale. L’alta percentuale di sanità privata accentua il fenomeno. In Veneto (come peraltro almeno in Emilia Romagna e Toscana) la presa in carico globale dei bisogni di una popolazione (quella del distretto) viene decisa in prossimità delle persone e non a un livello produttivo come nelle Asst lombarde.

Per questi motivi, in Veneto il malato di Coronavirus, grazie anche ai medici di medicina generale, opportunamente supportati dal sistema regionale, è stato individuato per tempo, prima che si aggravasse. In Lombardia invece ci si è accorti di loro quando erano già gravi e necessitavano del ricovero ospedaliero, intasando i pronto soccorso, i reparti Covid e le terapie intensive, costringendo spesso i medici a scelte dolorosissime. Non a caso il Veneto vanta un punteggio di 222 nella griglia Lea (Livelli essenziali di assistenza) contro i 221 punti dell’Emilia Romagna, i 220 della Toscana, i 218 del Piemonte e i 215 della Lombardia.

Del resto le parole di Giancarlo Giorgetti, lombardo e allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio al Meeting di Comunione e Liberazione sono illuminanti: “Mancheranno 45mila medici di base nei prossimi cinque anni, ma chi va più dal medico di base? (…) nel mio piccolo paese vanno dal medico di base per fare le ricette mediche ma chi ha meno di 50 anni va su internet (…) e cerca lo specialista. Tutto questo mondo qui, in cui ci si fidava del medico è finito…”.

Non sarebbero accettabili neppure se pronunciate da Donald Trump, a parte la discriminazione dei cinquantenni! Infine la delibera della Regione Lombardia che ha dirottato malati di Coronavirus dagli ospedali alle Rsa è figlia di una cultura sanitaria distorta, volta al risparmio e non alla cura della persona.

Il disastro della sanità lombarda di fronte all’epidemia da Covid-19 era scritto. Ben prima che il virus arrivasse.

*Già DG delle ASL di Livorno e Siena e Commissario ad acta per la sanità calabrese.

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