Silvia Romano non è una semplice ventenne dei nostri giorni, ha fatto delle scelte molto importanti, rischiose e soprattutto non comuni per una ragazza della sua età. Dopo la laurea in mediazione linguistica nel 2018, Silvia ha deciso di partire da sola per l’Africa come volontaria presso la onlus “Orphan’s Dreams” che opera in un orfanotrofio a Likoni e poi di proseguire la sua attività con un’altra onlus, “Africa Milele” a Chakama.

Silvia viene rapita il 20 novembre del 2018 proprio nell’ufficio dell’organizzazione con la quale cooperava. È stata tenuta prigioniera per 18 lunghi mesi prima della sua liberazione avvenuta lo scorso 9 maggio, grazie alla collaborazione tra Aise e servizi somali e turchi. La sua è una bellissima storia di impegno sociale, di coraggio ma soprattutto di libertà. Sì, libertà di scegliere la propria strada, libertà di sbagliare, libertà di convertirsi all’Islam (lei ha affermato di non aver subito nessuna costrizione in merito), di non portare più i jeans, di essere ciò che vuole.

La stessa libertà che ha guidato le scelte di Carola Rackete, capitana della Sea Watch 3 che il 26 giugno 2017 decide di sfidare le regole imposte dal decreto sicurezza-bis e dall’allora ministro Matteo Salvini, entrando in acque territoriali italiane vicino a Lampedusa per tentare di far sbarcare i 42 migranti che portava a bordo e salvargli la vita. Carola porta i dreadlock, non si trucca, non porta il reggiseno e non accetta compromessi quando si tratta di vite umane.

Il modo in cui sfida i pregiudizi è quasi commovente e per questa forza nell’affermare la propria individualità viene insultata, derisa e sminuita da gran parte dell’opinione pubblica. Perché questa libertà non può essere perdonata da chi, privo di iniziativa, di coraggio, di cultura, preferisce annegare nella mediocrità della sua esistenza.

E allora basta una buona connessione alla rete, un profilo social e una dose massiccia di rabbia ben repressa per ritrovare quel coraggio e per tentare di liberarsi dal peso della propria miseria. Improvvisamente ci si trasforma in ottimi critici musicali, in esperti di diritto internazionale o di immigrazione clandestina, ci si scopre piuttosto inclini alla medicina e all’economia politica, per non parlare della giurisprudenza per la quale sembrano tutti incredibilmente portati.

Ma la cosa più grave è che questa libertà viene messa alla berlina anche da esponenti della politica, da ministri e alte cariche dello Stato che inneggiano alla Costituzione proprio mentre la calpestano senza ritegno. Chi dovrebbe garantire e preservare quella libertà tenta invece di arginarla come fosse una minaccia, un pericolo per la stabilità della società oppure tenta di deriderla e sminuirla per limitarne “i danni”.

Sembra incredibile, lo so, ma è sempre più evidente che il binomio donna-libertà è qualcosa che ancora oggi, nel 2020, fa paura e genera una sorta di cortocircuito nelle menti di chi crede che l’essere femminile possa essere libero solo a determinate condizioni, la più importante delle quali è: non rompere troppo i coglioni.

Poi deve avere sempre un aspetto piacente, ma non troppo, sennò “sei una zoccola”; può fare carriera senza però mettersi in testa di poter competere con il maschio e di mettere a rischio la sua virilità; può emergere e avere successo, ma senza esagerare altrimenti è chiaro che ha avuto una “spintarella” dal potente di turno; può fare volontariato in Africa, ma se viene rapita sono cazzi suoi e soprattutto se torna da islamica in un Paese cattolico e timorato di Dio come il nostro, dovrebbe essere arrestata come minimo.

Può fare l’inviata all’estero ed essere anche una delle migliori giornaliste del Paese, ma se si presenta in video coi capelli non troppo pettinati e con il viso stanco deve soccombere alla colata di merda che le cadrà addosso, perché tutto si può perdonare ad una donna, ma non la libertà di non essere sessualmente appetibile.

Improvvisamente mi sento triste, non solo in quanto donna, ma in quanto essere umano e madre di un’altra donna. Mi sento triste perché le critiche più feroci nei confronti di Silvia, di Carola, di Giovanna e di tante altre donne forti e coraggiose arrivano soprattutto da altre donne, arrivano da chi sa perfettamente come ci si sente ad essere sminuite continuamente, ad essere relegate a ruoli di secondo piano, ad essere giudicate e in casi più estremi maltrattate e lo sa perché in cuor suo prova le stesse sensazioni, ma la sua condizione, la cultura, la paura non le permette di esprimerle.

Inevitabilmente tutta questa frustrazione si trasforma in rabbia, in invidia, in insofferenza verso chi osa ribellarsi, verso chi trova il coraggio di elevarsi, di scegliere la propria strada anche se questa comporterà dei rischi, verso chi sceglie di essere libera di esprimere se stessa. Ad ogni costo.

Le donne devono sempre ricordarsi chi sono, e di cosa sono capaci. Non devono temere di attraversare gli sterminati campi dell’irrazionalità, e neanche di rimanere sospese sulle stelle, di notte, appoggiate al balcone del cielo. Non devono aver paura del buio che inabissa le cose, perché quel buio libera una moltitudine di tesori. Quel buio che loro, libere, scarmigliate e fiere, conoscono come nessun uomo saprà mai. (Virginia Woolf)

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