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di Monica Valendino

Nella teoretica non è raro che un docente chieda ai suoi studenti cosa significhi per loro il termine “confine”. Molti risponderanno “un limite di demarcazione tra due paesi”, altri più azzardatamente proveranno ad asserire che è un “metodo per definire delle proprietà pubbliche o private”. Quasi nessuno risponderà che, come scriveva David Mitchell nel suo Atlante delle nuvole, tutti i confini sono convenzioni, in attesa di essere superate; si può superare qualunque convenzione, solo se prima si può concepire di poterlo fare.

Ecco il punto: mai come oggi viviamo con la consapevolezza che i nostri confini ci proteggano. Si è cominciato anni fa, con qualche leader politico che restringeva lo sguardo dei problemi internazionali fingendo di trovare una soluzione chiudendosi dentro e asserendo che “gli altri è bene aiutarli a casa loro“, tanto per tenersi pulita la coscienza. Peccato che tali illuminati leader non abbiano mai suggerito come aiutare costoro dentro i loro confini.

I nazionalismi, forti del populismo di tali leader, hanno preso forma ma senza avere sostanza come spesso accade alle ideologie prive di una filosofia reale alle loro spalle. Il virus ha poi amplificato ulteriormente quelli che nella mente di molte persone sono limiti. Si inizia col distanziamento sociale come strumento di protezione, si chiudono i valichi tra Paesi per proteggerci dagli altri, si pensa a tenere le persone sotto controllo per cercare di limitare i danni.

Ma se nel momento culmine dell’emergenza questi strumenti hanno un loro valore, nell’evolversi della situazione si rischia di arrivare a consolidare i limiti, i muri, come unica forma di sopravvivenza. Non solo tra nazioni, ma anche più drammaticamente tra persone.

La paura rischia di diventare il nuovo virus incontrollabile. L’altro diventerà presto il soggetto da emarginare. Cvetan Todorv ha sempre sostenuto che “è sotto l’effetto della paura che si compiono i gesti più inammissibili”.

Il presente dovrebbe farci ripartire da quanto ci ha insegnato il passato ed essere un veicolo per proiettarci verso qualcosa di nuovo. Una nuova organizzazione politica dell’Unione Europea, una globalizzazione che riprenda il significato più intrinseco, quello di cosmopolitismo con il Pil non più parametro universale per catalogare i popoli, ma soprattutto una nuova concezione del mondo basata sul progresso comune. Un confine necessariamente limita queste vedute. I confini sembrano rassicuranti, ma evitano di affrontare le sfide che la storia propone. Sempre Todorov sosteneva che “chi crede nei giudizi assoluti, e dunque transculturali, rischia di considerare come valori universali quelli ai quali è abituato, di praticare un ingenuo etnocentrismo e un cieco dogmatismo, convinto di conoscere una volta per tutte ciò che è vero e ciò che è giusto.”

Mai come in questo secolo serve iniziare a concepire il mondo come una casa unica dove ambiente, economia, rispetto hanno una matrice comune ovvero la sfida alla natura che come oggi si manifesta nella sua forma più invisibile, il virus.

Henri Laborit, biologo francese, scriveva: “Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama desiderio”. Oggi la fuga e la vera sfida è liberarsi dai confini materiali e avere il coraggio di iniziare un viaggio al di fuori degli schemi.

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