“Oddio, ieri sera non mi sono lavata le mani”. Albeggia, sono a letto, un pensiero terrificante mi attraversa la mente. Ripercorro i momenti della serata: la pizzeria, il tragitto fino a casa, le 3 o 4 maniglie toccate, il portone. “Ma come ho fatto, come è potuto succedere di essermi dimenticata un accorgimento così banale?”. Mi dispero. Mi sono stropicciata gli occhi infinite volte durante la notte (e presa dall’ansia, neanche smetto). “Sono irrimediabilmente una stupida irresponsabile”. Mi rimprovero, mentre penso a tutti quelli che potrei contagiare. Il senso di colpa mi opprime, mi annichila. Nel tentativo di auto-assolvermi, ripercorro “n” volte la serata. Non c’è niente da fare. Ho sbagliato. Me lo merito il Covid. E a quel punto, per fortuna, mi sveglio. Era solo un sogno, uno di quegli incubi che già sono ricorrenti. È il virus che attraversa il mio inconscio. Mica solo il mio, peraltro, immagino.

Non sono molto originale, lo so. Ma ho letto La Peste di Albert Camus. L’ho iniziato durante i primi giorni del lock-down e l’ho finito domenica 3 maggio, diciamo alla vigilia della cosiddetta “Fase 2”. La tempistica non è un dettaglio. Per due mesi, la mia mente è stata come imprigionata, catturata dal Covid. Non nel senso del terrore. Purtroppo? Forse purtroppo.

Interesse ossessivo in una prima fase, sensazione di “eroismo” condiviso con chi magari eroe è stato davvero in questi mesi, forse suo malgrado. Percezione acuta di una realtà diversa, estrema, in cui noi tutti ci siamo trovati catapultati. Riflessioni continue, ondivaghe sul concetto di libertà, di scelta. Tentativo di ridefinire i confini dell’etica, prima di tutto personale. Perché poi, paradossalmente, in queste settimane etica ha significato prima di tutto annullamento della “pietas” più istintiva degli esseri umani: niente visite ai malati, distanza necessaria dalle persone fragili (che però così diventano più fragili, è un fatto), micro-trasgressioni, secondo il principio della responsabilità (e della indispensabilità). E, forse, a tratti, la sensazione più spaventosa di tutte: quella che in fondo essere costretti ad abbattere più o meno di botto una serie di abitudini tanto consolidate, quanto inutili e faticose, una serie di attività isteriche, affannose, compulsive, fosse una forma di liberazione.

Mi tornavano in mente le giornate di volontariato nel carcere minorile di Casal del Marmo: quando le guardie mi chiudevano la porta alle spalle, mi sentivo non imprigionata, ma leggera, in uno spazio sospeso, tutto da inventare. E i ragazzi, dentro (nella migliore delle ipotesi) mi sembravano sperimentare a tratti qualcosa di analogo: la possibilità di vivere protetti, lontani da quello che erano stati fuori. Poi, come quegli odori che arrivano improvvisi, la nostalgia: di una birra in piazza, un gelato di corsa, un caffè disquisendo sui destini dell’umanità, di un parcheggio selvaggio, di una serata senza orari e senza distanze stabilite per necessità. Della luce del mare al tramonto in primavera.

Un’altalena di umori che di certo non è finita qui. Con una sorta di chiodo fisso: quali sono, quali devono essere, quali saranno le categorie psicologiche interpretative di questa nuova realtà? Come valutare anche quello che ci succede ogni giorno? Qui, la mia mente si ferma. Ma ho letto La Peste. Un’esperienza mistica, un flash: mi sembrava di veder descritto, passo passo, non solo quello che stava succedendo intorno a noi, ma pure dentro di noi. Personaggi complessi, tormentati, alle prese con decisioni continue, estreme, contro natura. Forma-Stato in evoluzione più o meno imprevedibile. Conflitto tra affetti e dovere.

E poi, a un certo punto, la descrizione di quello strano grigio che abbatte la forza della paura, delle passioni e quindi anche della speranza e della proiezione verso il futuro. “Io ne ho abbastanza della gente che vive per un’idea. Non credo nell’eroismo, so che è fin troppo facile e ho scoperto che uccide. A me interessa che gli uomini vivano e muoiano per ciò che amano”, scrive Camus, riportando un dialogo tra due dei suoi protagonisti. E’ il giornalista parigino Rambert che parla con Tarrou, quello che sta annotando il diario dell’epidemia. Per inciso, proprio lui, che porta avanti le ragioni dell’”amore”, poi fa una scelta eroica. Segno che i confini sono mobili, cangianti, le categorie sfuggenti. Che i rapporti che si sviluppano dentro l’esperienza comune dell’epidemia diventano prioritari e trasformativi.

“Al grande slancio indomito delle prime settimane era seguito un abbattimento che sarebbe sbagliato scambiare per rassegnazione, ma che comunque era una specie di temporaneo consenso”, prosegue il romanzo, qualche pagina dopo. Ancora: “L’abitudine alla disperazione è peggio della disperazione stessa”. Perché, “l’amore richiede un po’ di futuro, e per noi ormai c’erano solo istanti”. Tipo licenza poetica, queste considerazioni le adatterei a una sorta di “amore” generalizzato. Come conciliare “amore” e responsabilità, altruismo ed egoismo, senso della collettività e quell’identità personale, senza la quale tutto diventa insapore, pure la stessa collettività? E mantenendo sempre il senso di quella che è una Tragedia, con la t maiuscola?

Il dibattito è complesso, il percorso tortuoso, il finale aperto.

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