A un certo punto, ci interrogheremo pure su come riaprire le attività riproduttive? Convocheremo una task force di psicologhe, psichiatre, sociologhe, maestre, madri per capire quanto a lungo possiamo resistere facendone a meno? Le ho scritte al femminile per farvi avere la reazione che state avendo: “Perché tutte donne??”. Mi bruciano ancora gli 11 saggi tutti maschi scelti da Napolitano per traghettarci fuori dalla crisi dalla quale non siamo mai usciti.

Quando ci preoccuperemo di valutare gli effetti di questa inedita e prolungata privazione delle relazioni fisiche e affettive al di fuori dello stretto nucleo familiare, per chi ha la fortuna o sfortuna di averne uno accanto?

Magari sono io che ho delle priorità bislacche, ma voi – facciamo un sondaggio – in quali momenti della vita siete stati più felici? Quando vi è parso che tutto avesse un senso o che valesse comunque la pena fare un giro di giostra a bordo del pianeta? Ecco, appurato quali sono i momenti che danno un senso alla vita: non voglio sminuire il fondamentale apporto della produzione, ma come possiamo accettare che siano gli esperti di gestione d’impresa, bravi principalmente a tagliar teste in un momento in cui bisognerebbe salvare i posti di lavoro, e, in subordine, gli epidemiologi, i soli deputati a valutare strategie, costi, benefici del nostro vivere? Andiamo avanti a tenere aperte le fabbriche che producono di tutto (l’Istat certifica che il 55,7 per cento dei lavoratori escono ogni giorno per andare al lavoro, esclusi gli smartworker) e a multare gli innamorati che prendono il treno? Chiudiamo anziani e bambini in casa fino a quando non si trova un vaccino, tanto loro non producono? Ci affidiamo ai manager apprezzati all’estero per stabilire come e quando potremo tornare a abbracciarci in Italia? Non bisognerebbe valutare le ricadute sulla qualità della vita, non solo in termini economici, e dar conto di queste valutazioni ai milioni di italiani che stanno accettando un disciplinamento sociale senza precedenti?

Rischiamo che si proceda, nel migliore dei casi, separando ambiti fondamentali che nella vita si fondono: il lavoro, gli affetti, lo svago, la cultura, il riposo. Al di là del fatto che molti degli esperti convocati dal governo incarnano una visione che è precisamente quella che ci ha condotto alla precarietà esistenziale ben prima del virus (privatizzazioni, riduzione del “costo del lavoro”, come chiamano gli stipendi dei lavoratori quelli che vogliono tagliarli), osservo che ci sono diversi manager e nessuno psicologo dell’età evolutiva. La task force deve stabilire solo come tornare a produrre mantenendo il distanziamento sociale? Precisamente questo è l’assurdo.

Puntare ai soli obiettivi del rilancio della produzione e della riduzione dei contagi sui luoghi di lavoro – che è altra cosa dalla sicurezza sul lavoro, dove ci si ammala e si muore per molti altri accidenti – senza ragionare sulle conseguenze che i dispositivi di distanziamento sociale, reclusione e controllo avranno sulla qualità della vita di tutti noi che abbiamo altri desideri e bisogni oltre a quelli di produrre, consumare, non essere contagiati dal Coronavirus.

Tra le assenze spicca quella delle lavoratrici e dei lavoratori, tagliati fuori dalla task force. Cosa dicono i sindacati? Saranno ancora una volta le imprese a stabilire cosa si produce e come? Chi produce non avrà voce in capitolo? Non dovremmo approfittare di questa rivoluzione del vivere per interpellare le associazioni dei lavoratori, gli studenti, le famiglie, prima di ritrovarci come gli inquilini di certe case popolari opprimenti perché progettate da chi non ci avrebbe trascorso la notte?

Abbiamo già pagato una volta il conto dei “tecnici” che pensavano di sapere cosa fosse necessario per tutti: aumentare l’età pensionabile, rendere i lavoratori licenziabili, tagliare posti letto e interi ospedali, privatizzare i servizi.

Vogliamo di nuovo appaltare agli esperti, specializzati in un unico ambito, l’autorità politica e perfino morale di stabilire cosa è bene e cosa è male, senza passare per il Parlamento? Il punto di vista dell’epidemiologo è prezioso, ma non è l’unico parametro per orientarci, o rischiamo di saltare alle conclusioni che ci faccia bene tutto quello che impedisce il diffondersi del virus, senza valutare l’impatto delle misure su altri aspetti fondamentali per la salute. Depressione, ansia, insonnia, patologie legate allo stile di vita sedentario, alla sospensione delle terapie, alla mancata esposizione al sole che indebolisce il sistema immunitario. Malattie cardiovascolari e tumori (che in quarantena, per lo stress, chi fuma fuma il doppio e chi beve beve il doppio e chi mangia troppi zuccheri ne mangia il doppio).

Eppure, è anche questa un’emergenza sanitaria della quali si conoscono le cause e non vengono arginate: ogni giorno quasi 500 persone muoiono di cancro e a provocare più decessi è quello al polmone che in 8 casi su 10 dipende esclusivamente dal fumo, ma lo Stato vende le sigarette, come gli alcolici, perché alle persone piace fumare e bere, anche se sanno che fa male e fa male ai loro familiari e comporta un aggravio per il sistema sanitario. È un’osservazione che faccio da astemia non fumatrice e antiproibizionista per restituire lucidità a chi, causa esposizione alla tv, ha paura di morire di Covid-19 e dà la colpa ai runner.

Dobbiamo preoccuparci di quello che stiamo già patendo da “sani”. Dell’angoscia, l’irrazionalità, l’aggressività, l’infantilismo, la disperazione. Chi prova a suggerire che sia importante preoccuparci non solo di come tornare a produrre ma anche a passeggiare, giocare, baciarsi nei parchi viene additato come frivolo e irresponsabile. Perché? Sono la sola a pensare che la morte non sia la prospettiva peggiore per l’essere umano, essendo per altro l’unica certa, ma piuttosto la solitudine, paura, l’abbandono?

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