Il 26 marzo del 2020, nel pieno della pandemia, l’ex presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha firmato un lungo intervento sul Financial Times, in cui ha parlato di come gli stati dovevano affrontare la crisi. Oggi, a distanza di quasi un anno e a poche ore dalla convocazione al Quirinale da parte del presidente della Repubblica Mattarella, quelle righe hanno un sapore diverso: quello di un autentico programma di governo. Ecco il testo integrale:

La pandemia del Coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molte persone, oggi, vivono nel timore per la propria vita o sono in lutto per i propri cari. Le azioni che i governi stanno intraprendendo per scongiurare la crisi dei loro sistemi sanitari sono coraggiose e necessarie, e devono essere sostenute. Tuttavia, queste azioni comportano anche enormi e inevitabili costi economici. Molte persone rischiano la vita, e molte di più rischiano di perdere le loro fonti di sostentamento. Sul fronte economico le notizie peggiorano di giorno in giorno. Le aziende di tutti i settori si trovano ad affrontare un crollo degli introiti, e molte si stanno già ridimensionando e licenziando lavoratori. È inevitabile una profonda recessione.

La sfida cui ci troviamo di fronte attiene a come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, aggravata da un enorme numero di fallimenti che lasceranno danni irreparabili. Già adesso è chiaro che la risposta che dovremo dare a questa crisi dovrà comportare un significativo aumento del debito pubblico. La perdita di reddito nel settore privato, e tutti i debiti che saranno contratti per compensarla, devono essere assorbiti, totalmente o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e andranno di pari passo con misure di cancellazione del debito privato.

Il ruolo dello Stato è proprio quello di usare il bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire. Gli Stati lo hanno sempre fatto durante le emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più rilevante – sono state finanziate con l’aumento del debito pubblico. Durante la Prima guerra mondiale, solo una quota compresa tra il 6 e il 15% della spesa bellica di Italia e Germania è stata finanziata con le tasse, mentre in Austria-Ungheria, Russia e Francia non si è mai attinto alle tasse per pagare gli ingenti costi della guerra. Anni di guerra e di leva obbligatoria hanno eroso la base fiscale di tutti i paesi del mondo. Oggi la stessa cosa sta accadendo per la pandemia e per il conseguente blocco di molti paesi.

La questione fondamentale non è se, ma in che modo lo Stato possa fare buon uso del suo bilancio. La priorità, infatti, non deve essere solo fornire un reddito di base a chi perde il lavoro, ma si devono innanzitutto proteggere le persone dal rischio di perdere il lavoro. Se non lo faremo, usciremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità produttiva danneggiate in modo permanente, ma le famiglie e le aziende faticheranno a riassestare i bilanci e a ricostruire patrimonio netto.

I sussidi di occupazione e di disoccupazione e il rinvio delle scadenze per le imposte sono passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi, ma proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di guadagni richiede un sostegno immediato in termini di liquidità. È un passo essenziale per tutte le aziende, per poter coprire le spese di gestione durante la crisi, sia per le grandi sia, ancor di più, per le piccole e medie imprese, per i lavoratori e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto misure positive per incanalare la liquidità verso le imprese in difficoltà, ma serve un approccio più globale.

I Paesi europei hanno strutture finanziarie e industriali diverse, perciò l’unico modo efficace per poter raggiungere ogni singola crepa nell’economia è quello di mobilitare la totalità dei loro sistemi finanziari: i mercati obbligazionari, principalmente per le grandi aziende, i sistemi bancari e, in alcuni Paesi, anche i sistemi postali. Tutto ciò deve essere fatto immediatamente, senza lungaggini burocratiche. Le banche, in particolare, si espandono in ogni angolo del sistema economico e possono creare denaro istantaneamente, consentendo lo scoperto o aprendo linee di credito.

Per questo le banche devono cominciare rapidamente a prestare fondi a costo zero alle aziende disposte a salvare posti di lavoro, e poiché in questo modo diventano di fatto un veicolo di politiche pubbliche, il capitale di cui hanno bisogno per svolgere questa attività deve essere fornito dai governi, sotto forma di garanzie statali su ogni ulteriore concessione di linea di credito o di prestiti. Nessun ostacolo, né di natura regolamentare né in materia di garanzie, si deve frapporre alla creazione, nei bilanci delle banche, di tutto lo spazio necessario a questo scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito dell’azienda che ne beneficia, ma dovrebbe essere pari a zero indipendentemente dal costo di finanziamento del paese che le emette.

Le aziende, tuttavia, non devono attingere al supporto alla liquidità semplicemente perché il credito sarà conveniente. In alcuni casi, per esempio nel caso di imprese con un portafoglio ordini arretrato, le perdite saranno recuperabili e quindi il debito potrà essere ripagato. In altri settori probabilmente non sarà possibile.

Alcune aziende potrebbero essere in grado di assorbire la crisi per un breve lasso di tempo, indebitandosi allo scopo di mantenere in attività il loro personale, ma le perdite che accumulerebbero in questo modo rischiano di compromettere la loro capacità di investire in futuro. Inoltre, se l’epidemia di virus e i relativi blocchi dovessero perdurare più a lungo, realisticamente queste aziende potrebbero rimanere in attività solo nella misura in cui il debito accumulato per mantenere i dipendenti al lavoro finora venisse cancellato.

Le ipotesi sono due: o i governi compensano direttamente le spese di chi si indebita, oppure compenseranno le garanzie degli insolventi. Tra le due, sempre che si possa contenere il rischio morale, la prima ipotesi è migliore per l’economia, mentre la seconda sarà probabilmente meno onerosa per i bilanci. Se si vogliono proteggere i posti di lavoro e la capacità produttiva, in entrambi i casi i governi dovranno assorbire gran parte della perdita di reddito causata dalla chiusura del paese.

I debiti pubblici cresceranno, ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la credibilità dei governi. Inoltre va ricordato che alla luce dei livelli attuali e dei probabili livelli futuri dei tassi d’interesse, l’aumento del debito pubblico non comporterà costi di servizio.

Sotto un certo punto di vista l’Europa è ben attrezzata per affrontare questa crisi straordinaria: ha una struttura finanziaria granulare, in grado di incanalare fondi verso ogni ramo dell’economia che ne avesse bisogno. Il settore pubblico è forte e in grado di dare una risposta politica rapida. E la rapidità è essenziale per essere efficaci.

Di fronte all’imprevedibilità delle circostanze è necessario un cambiamento di mentalità, al pari di quello operato in tempo di guerra. La crisi che stiamo affrontando non è ciclica, la perdita di guadagni non è colpa di nessuno di coloro che ne stanno soffrendo. Esitare adesso può avere conseguenze irreversibili: ci serva da monito la memoria delle sofferenze degli europei durante gli anni Venti.

La velocità a cui si stanno deteriorando i bilanci privati – a causa di una pure inevitabile e auspicabile chiusura di molti paesi – deve essere affrontata con altrettanta rapidità nel dispiegare le finanze pubbliche, nel mobilitare le banche e nel sostenerci l’un l’altro, come europei, per affrontare questa che è, evidentemente, una causa comune.

*L’autore è Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea

Traduzione a cura di Riccardo Antoniucci

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