Ho creduto a una satira, quando ho letto per la prima volta la frase “A causa del coronavirus dobbiamo prepararci a perdere i nostri cari” su una vignetta trasmessa al mio smartphone dalla catena di WhatsApp che notte e giorno scandisce questo tempo sospeso. Nella didascalia della risposta, la regina Elisabetta d’Inghilterra rintuzza sorridendo il primo ministro inglese, che le aveva rivolto quella frase: “Mi dispiace per lei e la sua famiglia”. Leggendaria.

Non è satira, ma realtà. È l’espressione in po’ brutale con cui Boris Johnson ha inaugurato la politica della immunità di gregge che il governo inglese, finora unico al mondo, ha intrapreso per far fronte alla pandemia di coronavirus. Un appello alla nazione carico di pathos, un “solemn statement” come lo ha battezzato il Times nel coro quasi unanime di consensi, tranne poche eccezioni: i soliti gufi, gli scienziati assai perplessi interpellati dal Guardian.

Boris Johnson non è Conan il Barbaro. È un rampollo di buona famiglia di origini inglesi, turche, ebraiche, francesi, russe e tedesche. Nel suo pedigree mancano solo gli italiani. Ha frequentato prima l’Eton College e poi l’Università di Oxford, dove si è laureato discutendo una tesi in storia antica. Ha studiato il mondo classico, con una passione particolare per la storia e la cultura di Roma, su cui ha scritto un saggio (The Dream of Rome, 2006). Da ministro “ombra” dell’Istruzione, egli aveva perfino proposto di reintrodurre il latino nelle scuole pubbliche. Non so quale imperatore prediliga ma, come prototipo, Nerone sembra più adeguato di Adriano.

La ragione di stato – un po’ machiavellica secondo la vulgata popolare sul politologo italiano più noto della storia – sta tutta in una distorta concezione della dimensione nazionale, una visione che traguarda la distopia. Boris ha davanti due opzioni. La prima sacrifica l’economia nazionale per salvare la vita a qualche decina o centinaia di migliaia di ultrasessantenni in una congiuntura economica pessima, tra Brexit e recessione globale. E tra un anno, la nazione in ginocchio gli negherà il consenso popolare che lo ha incoronato alla guida del paese.

La seconda opzione sacrifica i vecchietti, anziché l’economia, a vantaggio del benessere complessivo della nazione: minima interruzione delle attività economiche, minori costi sanitari, meno pensioni da pagare. E tra un anno il Regno Unito guarderà gli altri paesi europei dall’alto in basso, forte di una popolazione più giovane e robusta, senza fragilità sanitarie, alleggerita dal peso previdenziale. Boris incasserà così un consenso ancora più vasto, quando le lacrime di dolore per perdita dei nonni si saranno asciugate.

Da sempre, Boris Johnson è un fervente ammiratore di Winston Churchill, al quale ha dedicato un saggio storico (The Churchill Factor: How One Man Made History, 2014) che all’approfondimento storiografico aggiunge soltanto una piatta, ulteriore, inutile agiografia. Con il suo gabinetto di guerra al coronavirus, Johnson confida di ripetere la gloriosa cavalcata del suo archetipo di vita e di azione, s’illude di reincaricare la forza e la lungimiranza dello statista che nel 1940 invertì il corso della storia, come narra un recente film di successo (L’ora più buia, 2017). Ma c’è un altro film che Boris non dovrebbe dimenticare: Gli anni spezzati (1981) in originale Gallipoli.

Lanciata nella primavera del 1915, la campagna di Gallipoli è uno dei disastri militari più terrificanti della Prima Guerra Mondiale e, più in generale, della storia dell’umanità. E, nello stesso tempo, uno dei più stupidi. L’operazione, destinata a conseguire il controllo dello stretto dei Dardanelli e la capitolazione dell’Impero Ottomano, fu ideata dall’allora quarantenne Churchill – all’epoca primo Lord dell’Ammiragliato – e il suo fallimento costò agli Alleati un fardello di 46mila morti e 86mila feriti. E altri 258mila soldati perirono successivamente per le conseguenti epidemie di febbre tifoide, dissenteria e diarrea.

Se nel 1940 Winston Churchill disse agli inglesi “Non ci arrederemo mai”, il “Preparatevi a morire” di Boris Johnson non è esattamente la stessa cosa. Dio salvi la regina.

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