Si parla di “evacuazione”, un termine da scenario bellico. Il mondo sommerso delle badanti, diventato ancora più invisibile nel vuoto sociale creato dal coronavirus, è nel panico. Il timore di essere considerate figlie di un dio minore nell’emergenza sanitaria, insomma di essere scartate in un’eventuale scelta di salvezza terapica, a favore di un paziente italiano, si è diffuso come l’impressione di trovarsi in trappola. Se altri segmenti del mondo dei migranti sembrano meno toccati dal contagio, anche per motivi anagrafici, quello delle badanti si ritrova in prima linea.

Sono già diversi i casi di positività al tampone. Sulle porte delle case degli anziani, spesso fantasmi nei condomini padani, compaiono cartelli di disinfestazione per positività da coronavirus ed emergono storie di trasmissione. “Le badanti sono il soggetto più a rischio perché insieme ad infermieri e medici sono a stretto contatto con le persone malate” scrive Cercabadanti.it, invocando linee guida e vicinanza da parte delle autorità per un settore delicatissimo, ma abbandonato a sé stesso, come sempre. Si riporta anche il caso di A. M., che sarebbe la prima badante contagiata in Italia: “Ad un certo punto si sono manifestati i sintomi di quella che sembrava essere una normale influenza, una leggera tosse, febbre bassa e leggero mal di gola. Non mi sentivo preoccupata perché sembrava tutto normale, la televisione parlava del coronavirus, ma noi non eravamo in una zona a rischio e io mi sentivo sicura, non avevo assolutamente paura, tanto che ho continuato ad uscire nelle mie ore di riposo. Ad un certo punto le condizioni della signora che curavo sono peggiorate e abbiamo chiamato il medico. Il dottore ha subito avuto dei sospetti, hanno fatto il tampone e poi è arrivata la conferma del coronavirus. Io in quel momento ho pianto, ho avuto un attacco di panico. La signora che curavo dopo pochi giorni è stata ricoverata in terapia intensiva e visto che era già molto debole è morta. Io le volevo bene come se fosse stata mia nonna, non ho potuto andare al suo funerale”.

La morte, già. Il tipico incubo della badante, che vede scomparire sotto gli occhi la fonte di reddito per sé e i figli lontani, ma anche una sorta di familiare acquisito, le poche certezze in un paese straniero. In questo caso si condivide il virus, se non la sorte. Difficile dire chi lo ha attaccato a chi. Di solito l’anziano sta più in casa, ma riceve visite. La badante esce di più, ma spesso per ragioni di lavoro.

Andrea Zini, vicepresidente dell’Assindatcolf, il sindacato che rappresenta i datori di lavoro di badanti, colf e baby-sitter, parla di un aumento delle dimissioni, quindi di una fuga dall’assistenza domiciliare, e chiede misure di aiuto al governo: “All’inizio si poneva il problema delle zone rosse” spiega Zini al Fatto Quotidiano. “Il confine in alcuni casi impediva alle badanti non in regime di convivenza di raggiungere il domicilio dove prestavano servizio. Gli assistiti si sono ritrovati abbandonati. Siamo stati invitati a un tavolo di discussione del governo, abbiamo fatto presente il problema, ma senza ricevere risposta. Ora tutta l’Italia è zona rossa e i problemi sono altri. Ci sono famiglie che hanno difficoltà economiche a causa dell’epidemia, soprattutto quelle dei lavoratori autonomi, e non possono far fronte all’assistenza degli anziani, la fascia di popolazione più esposta al virus. Chiediamo al governo l’estensione a questo settore della cassa integrazione straordinaria. E l’estensione del voucher baby-sitter, annunciato ma non ancora concesso, alle badanti. I voucher dovrebbero essere pensati solo per il lavoro regolare e non per il lavoro nero”.

Attualmente, secondo gli studi in possesso di Zini, badanti, colf e baby-sitter in Italia sono due milioni, ma solo 800mila sono in regola, una delle percentuali più basse di tutto il mondo del lavoro. Le badanti sono quasi la metà (45,6 per cento). Stiamo parlando di circa un milione di persone, in buona parte provenienti dall’Est Europa, soprattutto Ucraina e Romania. In nazioni più civili e virtuose come la Francia le famiglie possono detrarre le spese per l’assistenza. In Italia vengono trattate alla stregua delle imprese, come se perseguissero uno scopo di lucro e non un fine sociale in un paese che invecchia inesorabilmente. Gli adempimenti burocratici sono complessi, le detrazioni scarse, e flussi migratori contingentati. Il quadro complessivo spinge al sommerso ed emergerebbe regolarizzandosi con un regime di detrazioni: a vantaggio delle casse statali. Ma ora siamo all’emergenza.

Alcune badanti stanno tornando a casa per la paura del virus, ma rischiano di portare il contagio in patria. La discussione si è fatta accesa tra chi va e chi resta. I contagi nei paesi dell’ex blocco comunista si contano sulle dita di una mano, ma potrebbe essere solo questione di tempo o di tamponi non effettuati. Sui gruppi Facebook, come “Badanti h24”, o “Ucraincy v Italii (ucraini in Italia), si discute se l’emergenza sia il solito “teatro” all’italiana, oppure sia il caso di partire. In generale prevale l’invito a non muoversi per non infettare i luoghi d’origine. Ma il panico e la voglia di andarsene stanno crescendo: “Stiamo a casa e uniamoci tutte in preghiera” dice un’ucraina, suscitando lo scherno di qualche connazionale. “I sacerdoti avvertono: non baciate le icone”, titola l’ucraino Ekspres. In Italia il consiglio viene considerato superato perché i raduni religiosi, tessuto comunitario fondamentale per chi vive lontano dalla patria, si sono interrotti: messe, gruppi di preghiera e così via. Così è accaduto per la parrocchia di Mykola, l’archimandrita di San Babila a Milano, un monaco ucraino molto seguito e amato dalle connazionali ortodosse, considerato una sorta di santo capace di alleviare le loro pene con un sguardo e una parola. L’ex badante di mia nonna, Alina, ha un figlio a Lecco che fa il sacerdote e dunque vive del sostegno dei fedeli. Si chiede se avrà problemi economici. Il suo permesso di soggiorno non gli consente di fare nient’altro. Anche per lei il lavoro di pulizia nelle case continua a diminuire. Alina non ha paura, dice che le sue connazionali hanno pochi contatti sociali, ma vorrebbe che si adottasse una soluzione alla cinese: tutto chiuso.

Il termine evacuazione, “evakuacija”, ricorda l’episodio del rimpatrio di alcuni ucraini che si trovavano in Cina allo scoppio dell’epidemia. In quel caso l’accoglienza per gli autobus che portavano i reduci verso la quarantena non è stata buona, tra inviti ad andarsene e lanci di pietre, ma oggi sembra un sogno la prospettiva di salire su un aereo a spese di qualche governo e tornarsene a casa dopo un paio di settimane di “kvarantin” in una struttura sanitaria. La cosa non è però fattibile se consideriamo che le badanti ucraine in Italia sono centinaia di migliaia e non basterebbe un gigantesco ponte aereo della Nato. Le distanze sono più ridotte rispetto alla Cina e fortunatamente si può tornare indietro in autobus o, meno comodamente ma più discretamente, in uno Sprinter, cioè in un furgone. Il viaggio dura due o tre giorni a seconda delle code in frontiera e le distanze di sicurezza tra passeggeri si misurano in millimetri nei momenti di maggiore afflusso. Contagio assicurato in caso di positività di uno dei passeggeri, costo cento euro, arrivo non assicurato tra frontiere che chiudono e controlli sempre più stretti.

Insieme alla paura per la situazione in Italia, si diffonde la paura per la mancanza di trasparenza in patria, che richiama alla mente i tempi di Černobyl’, quando c’era l’Unione sovietica e il Cremlino nascondeva tutto. “Per me il virus è già entrato” commenta sulla pagina Facebook “Ucraini in Italia” Oksana Rudnytska. Qualcuno parla di una “sindrome dei polmoni bruciati a Zaporože”. Tutti sono scettici sulla risposta politica. “Il 17 febbraio è morta la mia cugina di 48 anni a causa di polmonite… così dicono medici. In realtà non ci credo” commenta Natascia. Vadym Kulikov, sempre nello stesso post: “Ufficialmente c’e solo un caso, ma ci sono moltissime persone ammalate con polmonite o bronchite che nessuno vuole testare per il Covid19. È scontato che il virus c’è anche qui. Il 50% dei bimbi in asilo del mio figlio oggi sono a casa con diagnosi bronchite”.

Il caso unico si trova naturalmente a Černovcy, capoluogo della Bukovina, al confine con Romania, da cui provengono molte badanti che lavorano in Italia. Come è possibile che non si sia diffuso? Il paziente zero ucraino non ha infettato nessun altro? Le foto del malato, assistito da personale medico in una semplice mascherina, in una stanza disadorna, vengono accostate a quelle di pazienti intubati in rianimazione in Italia per far capire come un’epidemia sarebbe tragica in un paese provato da anni di conflitto e con strutture sanitarie obsolete. Per le badanti la segregazione domestica diventa ancora più pesante. Non si può tornare a casa a guarire o morire, ma circola anche molto sangue freddo: “Mangiate cavolo fermentato: contiene vitamina C”, “Siamo nati nella neve a meno venti, sopravviveremo”, “Abbiamo affrontato ben altro” commentano. La carestia indotta da Stalin, l’operazione Barbarossa, l’incidente alla centrale nucleare Lenin, la guerra in Donbass. E prima ancora le orde mongole che portavano la peste dall’Asia, giunta in Italia attraverso le colonie genovesi della Crimea.

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