di Franco Scarpelli* e Gionata Cavallini**

Le misure via via più restrittive per governare l’emergenza sanitaria impattano su tante attività produttive, ridotte o sospese. Molto si sta discutendo delle conseguenze per imprese e lavoratori dipendenti: ma quali sono le conseguenze e i rischi per i lavoratori autonomi?

Qui possiamo dare qualche indicazione generale, fermo restando che possono esserci differenze di regole caso per caso e per tipologie di lavoro autonomo (autonomi occasionali, collaborazioni coordinate e continuative, collaboratori in partita Iva, professionisti e autonomi classici). Una distinzione importante, come si dirà in conclusione, è poi quella tra rapporti di lavoro autonomo genuini o non.

I provvedimenti di queste settimane contengono una sola misura di sostegno ai lavoratori autonomi, ovvero quella dell’art. 16 del d.l. del 2 marzo, che aveva previsto (solo per i lavoratori operanti nelle vecchie “zone rosse”) il diritto a una indennità mensile pari a 500 euro, per un massimo di tre mesi. Difficile immaginare che una simile misura possa essere estesa all’intero territorio nazionale: il costo sarebbe davvero elevato.

Il vasto mondo dei lavoratori autonomi è messo a rischio da numerosi fattori: eventi incidenti sulla sfera personale (malattia o quarantena); eventi riguardanti l’impresa committente (sospensione delle attività, obbligatorie, per scelta o per oggettiva impossibilità); limitazioni alla circolazione nei territori nei quali debba essere svolta la prestazione.

In generale, nei rapporti di lavoro autonomo il rischio grava sul lavoratore, compreso quello di non poter svolgere la prestazione per cause che lo riguardino, tra cui la malattia. Il cosiddetto Statuto del lavoro autonomo (legge n. 81/2017) prevede però che la malattia del lavoratore autonomo che presti un’attività continuativa non determini l’estinzione del rapporto, la cui esecuzione può essere sospesa su richiesta del lavoratore, senza diritto al corrispettivo e al massimo per 150 giorni, salvo che il committente provi di non avere interesse alla continuazione del rapporto.

L’impossibilità di svolgere il lavoro per effetto dei provvedimenti restrittivi del governo è un rischio a carico del lavoratore autonomo. Va però detto che, poiché questi si obbliga a un risultato, e non dovrebbe essere soggetto a direttive o vincoli di tempo e luogo, in molti casi potrà offrire la prestazione con modalità compatibili con le prescrizioni imposte dalle autorità. Potremmo dire che lo “smart working”, che nel lavoro dipendente è oggetto di un accordo, nel lavoro autonomo è una modalità quasi naturale: dunque il collaboratore che proponga al committente di svolgere la prestazione a distanza, ove sia possibile, avrà diritto al compenso anche in caso di rifiuto.

Laddove invece la prestazione divenga solo parzialmente impossibile per qualunque motivo (impossibilità parziale ex art. 1464 c.c.) si potrà convenire una riduzione del corrispettivo, e il committente potrà recedere dal contratto solo se dimostra di non avere interesse a tale adempimento parziale. Se invece è il committente che non può ricevere la prestazione, per una causa a lui imputabile, come quando sospenda l’attività senza esservi obbligata, e al di fuori delle ipotesi di oggettiva impossibilità, il prestatore avrà diritto ad essere pagato.

In tutti questi casi valgono comunque i principi generali di correttezza e buona fede, nel rispetto dei quali ciascuna parte del rapporto dovrà sforzarsi di adottare approcci tesi a salvaguardare la posizione dell’altra parte.

Alcune tecniche di tutela per gli autonomi, pertanto, esistono, ma è innegabile che questi ultimi si trovino spesso in una condizione di maggior debolezza rispetto ai lavoratori dipendenti. Diventa quindi ancor più importante verificare se, al di là della forma contrattuale formalizzata tra le parti (co.co.co., collaborazione occasionale, partita Iva), le effettive modalità di esecuzione del rapporto siano coerenti e compatibili con la forma prescelta, o non nascondano invece un rapporto di lavoro subordinato.

Se così fosse, il prestatore autonomo che sia lasciato senza lavoro e senza corrispettivo potrà contestare la forma contrattuale adottata e richiedere le tutele previste per i lavoratori dipendenti. Ricordiamo poi che c’è una figura particolare, quella dei collaboratori che lavorano con modalità organizzate dal committente, per la quale è la legge stessa a prevedere l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato (art. 2 d.lgs. 81/2015, assurto di recente a notorietà con il caso dei riders di Foodora).

Facendo un esempio, se un’impresa sospende l’attività e chiede la cassa integrazione per i dipendenti, mentre “lascia a casa” i collaboratori autonomi questi ultimi, nell’ipotesi appena accennata, potrebbero pretendere le stesse tutele o un risarcimento equivalente.

Certo, il quadro normativo è frastagliato e complesso, e anche in questi casi è meglio evitare le tutele “fai da te” e rivolgersi a un buon ufficio sindacale o a un avvocato del lavoro.

* Professore di Diritto del lavoro all’Università di Milano-Bicocca, è avvocato del lavoro e tra i fondatori del network di studi Legalilavoro, rete nazionale di studi legali che assistono lavoratrici, lavoratori e organizzazioni sindacali (www.legalilavoro.it).
** Avvocato giuslavorista presso lo Studio Legalilavoro di Milano e dottore di ricerca in diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Milano.

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