C’è una particolarità che accomuna i calciofili italiani che oggi viaggiano tra i 35 e i 40 anni: la fortuna di aver goduto da ragazzini del non plus ultra del pallone e l’amore, il legame forte e sentimentale non solo per i mostri sacri, ma anche (e a volte soprattutto) per idoli passati per la provincia. Perché quando hai visto e goduto di Maradona hai visto tutto, quando ci hai messo vicino Baggio, Van Basten, Gullit, Zidane, Ronaldo il Fenomeno, Careca, Maldini e gli altri mostri sacri hai un repertorio praticamente infinito. Ma… Ma Maradona davanti e poi tutti gli altri sono il sacro, il rispetto religioso che si deve a delle divinità, poi ci sono gli amori effimeri, calciatori che quella generazione si è portata nel cuore e nei ricordi. Giocatori considerati incredibilmente di “seconda fascia” e che quasi mai hanno giocato nelle squadre per cui si fa il tifo ma che hanno un posto d’onore nei ricordi di chi ha vissuto gli anni della spola tra Tutto il calcio minuto per minuto alla radio e 90esimo in tv. Come Hagi, come Skhuravy, come Aguilera… e come Francescoli. Perché se per un nato dagli anni ’90 in poi “El Principe” è solo Milito e Zidane ha chiamato suo figlio Enzo solo perché ha giocato in Italia, chi ha visto giocare Francescoli sa che la verità è ben altra, che il soprannome di Milito e il nome del primogenito di un mostro sacro come Zidane sono tributi a lui, all’ex Cagliari e Torino. Solo Cagliari e Torino? Sì, all’epoca poteva accadere che campioni assoluti giocassero in club diversi dalle grandi.

Nato in Uruguay da una famiglia d’origine italiana cresce nel Montevideo Wanderers: è forte, lo nota il River. Coi “Los Milionarios” gioca tre anni, segna tanto e diventa un idolo dei tifosi: lo sarà per tutta la vita, e, cosa straordinaria, sarà tra le pochissime icone del River rispettate anche dagli acerrimi rivali del Boca. Vola in Francia, al Racing de Paris, diventando una stella e conquistandosi la chiamata del Marsiglia, all’epoca top club transalpino: vince il campionato e si guadagna il mondiale del 90 in Italia. La nazionale di Tabarez, nonostante una rosa forte sulla carta gioca un girone disastroso.

La A, allora élite del calcio, guarda El Principe con diffidenza: se ne dice un gran bene ma gioca in Francia, campionato non probante e soprattutto, in un epoca in cui se sei alto e forte fisicamente sei centravanti, se sei piccoletto e sgusciante sei un 10, uno come Francescoli, alto e forte e con due piedi che dipingono splendide tele è guardato con sospetto, trattato come i corvi trattano Dumbo nel cartone di Walt Disney, con lo stesso risultato finale però. Ci aveva provato la Juve anni prima, senza troppa convinzione, e il mondiale disastroso aveva spento un po’ i riflettori su di lui. In Italia c’è il Cagliari che cerca un attaccante, Francescoli è considerato un po’ troppo per la società sarda ma dopo una trattativa estenuante si riesca a portarlo al Sant’Elia assieme ad altri due uruguayani: Oscar “Pepe” Herrera e il giovane Daniel Fonseca. Alla corte di Ranieri gli inizi sono difficili: la A è dura, la delicatezza di Francescoli viene messa a dura prova da calci ed entrate degli avversari. Poi sboccia e comincia la sua leggenda: fa gol bellissimi, ha quel tocco di palla che sembra una carezza, tira punizioni deliziose e ha la capacità di portare a spasso gli avversari giostrando anche fuori dall’area, cosa difficile per i centravanti di allora.

Memorabile il gol con la Sampdoria campione d’Italia: aggancio fuori defilato a sinistra quasi sulla linea, avversari puntati e dribblati per l’entrata in area, il destro a giro sul secondo palo. Alla Milito, direbbe qualcuno, solo perché era Milito in realtà che segnava e giocava alla Francescoli, oltre a somigliargli molto anche fisicamente. Guida imprese importanti: esattamente 28 anni fa, con i sardi quasi retrocessi, è protagonista della splendida vittoria per 4 a 0 col Verona, con una punizione deliziosa. E’ l’inizio di una rimonta importante, con 11 risultati utili consecutivi e la salvezza per i sardi. L’anno dopo con Mazzone firma un’altra grande impresa, portando il Cagliari in Coppa Uefa, ma intanto a guidare i rossoblu è arrivato Cellino, e con lui Francescoli ha un rapporto difficile.

Infatti in quell’Europa che senza le sue prodezze il Cagliari non avrebbe raggiunto Francescoli non ci sarà. Andrà al Torino, a giocare la Coppa delle Coppe, ma in un’epoca di tanti gradoni e pochissima palestra, senza allenamenti personalizzati 33 anni sono tanti, troppi. Non brilla e patisce diversi acciacchi. Perciò torna al River per chiudere la carriera, e lo fa da protagonista segnando tanto (capocannoniere nel 1996), vincendo quattro campionati, la Libertadores e concedendosi anche una Coppa America con la nazionale. A meno di non farlo coi tifosi del Cagliari o del River, comprensibilmente, non c’è, quando si parla di Francescoli, la deferenza che si deve ai mostri sacri di quel periodo calcisticamente benedetto, no. Ma nominarlo porterà un sorriso, un brillìo negli occhi a chi ne ricorda dribbling, punizioni, gol e quelle carezze delicate al pallone. Lontano dagli altari meritatamente innalzati a chi si è conquistato la beatificazione: bellezza effimera, quella di Francescoli, ma che resta nel cuore.

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