Statoil, la società nazionale del petrolio norvegese, per far dimenticare due termini che non vanno più di moda (“stato” e “petrolio”) ha cambiato nome in Equinor nel 2018. Equinor ha appena proposto di ridurre del 40% le sue emissioni di CO2 nel 2030 e di azzerarle nel 2050, con investimenti nell’efficienza, nella digitalizzazione e nell’elettrificazione (i risparmi di emissioni al 2030 così ottenuti rappresenterebbero il 10% del totale di CO2 emesso oggi dalla Norvegia), nonché di voler decuplicare la sua produzione di energia dall’eolico entro il 2026, affermandosi come una “potenza dell’eolico”.

Equinor si conferma così la punta di diamante degli investimenti verdi (e del greenwashing) tra le società petrolifere. Questi annunci fanno scena. Svelano la potenza delle pressioni ambientaliste che pesano su tutte le società del settore energetico, ma contengono anche un messaggio nascosto.

In primo luogo le società petrolifere, secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia, investono meno dell’1% nelle rinnovabili e il restante 99% resto nel loro business tradizionale. L’annuncio di Equinor potrebbe anche essere letto così: farò funzionare le mie piattoforme petrolifere ad elettricità, non disdegnerò le rinnovabili laddove mi convenga, ma l’obiettivo è sempre quello di produrre gas e petrolio per consumatori di tutti il mondo.

In secondo luogo, Equinor annuncia che nel 2050 dimezzerà la produzione di petrolio, aggiungendo che ogni unità di energia prodotta e consumata avrà per quella data una “intensità di carbonio” dimezzata. Il problema è che anche se tutte le società petrolifere si comportassero in modo così virtuoso, non solo non rispetteremo gli obiettivi meno ambiziosi di Parigi (limitare l’innalzamento della temperatura media del pianeta di 2 gradi), ma saremo proprio fritti. Entro il 2050, l’80% delle riserve provate di idrocarburi dovrebbe restare sottoterra, e il consumo (dunque la produzione) di idrocarburi dovrà essere quasi azzerato, non dimezzato.

La vicenda Equinor svela un problema di fondo. Non si può chiedere alle singole società petrolifere, tantomeno ai singoli Paesi, di rinunciare a una quota dei loro profitti per poi lasciare che altre società e altri Paesi si arricchiscano di conseguenza estraendo idrocarburi. Dovrà essere creato un modo per negoziare e ridurre in modo coordinato, a livello internazionale, le singole quote di produzione ed evitare una competizione fratricida e dannosa per l’ambiente.

Articolo Precedente

Combustibili fossili, lo studio di Greenpeace: “L’inquinamento atmosferico costa 8 miliardi di dollari al giorno e 4,5 milioni di morti”

next
Articolo Successivo

Surriscaldamento climatico, dall’Antartide si stacca un iceberg grande quanto Malta: le immagini dal satellite

next