di Barbara Pontecorvo e Emanuele Calo’
(Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni)

A partire dal 2016 il mondo è stato costretto ad adottare, Paese per Paese, la definizione di antisemitismo dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance). L’Italia, come prevedibile, è fanalino di coda.

Questa iniziativa è destinata a proteggere chi, come noi, è nato dopo l’Olocausto, ma è figlio della generazione superstite alla demolizione morale delle leggi razziali e alla demolizione materiale della Repubblica Sociale (“sociale”?) e del Terzo Reich. Si è costretti ad approvare questo provvedimento come argine morale, per quanto non vincolante (nemmeno per il giudice), alle idiozie che costituiscono, al contempo la linfa e l’humus dove si abbevera l’odio verso gli ebrei. Qui, l’offesa s’interseca con l’oligofrenia, con una tale violenza che finisce per confluire in quest’ultima.

Dal sondaggio sull’antisemitismo appena realizzato da Euromedia Reseach di Alessandra Ghisleri per Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni si apprende che l’antisemitismo non si nutre solo degli antichi stereotipi sugli ebrei, ma anche dell’odio trasposto nei confronti dello Stato d’Israele in quanto ebreo collettivo. A meno che non sia smaccato il pregiudizio di non voler riconoscere ad Israele il diritto ad esistere (contro ogni principio di autodeterminazione del suo popolo), che cosa dovrebbe essere l’antisionismo che genera antisemitismo in maniera cosi cospicua?

Esistono ebrei che non amano il sionismo (esempi ne abbiamo anche in Italia), ai quali andrebbe forse riconosciuto il diritto di non voler andare in Israele, se non altro sulla base del principio della libera circolazione e del suo inevitabile corollario di poter restare legittimamente dove ci si trova.

Ma ad un non ebreo cosa dovrebbe importare se un ebreo vuole o meno tornare in Israele? Potremmo, convintamente, essere contrari al diritto di un discendente di africani di voler tornare, per dire, in Nigeria, sulle orme del “Back to Africa movement”? Per il sionismo si fa un’eccezione, poiché il termine – non a caso mai definito dai cosiddetti antisionisti – viene inteso come una volontà imperiale di prevaricazione e conquista senza limiti. “Distinguiamo fra antisemitismo e antisionismo”, si sente spesso dire. È una frase vera nella misura in cui siano veri i pregiudizi di ogni natura e tuttavia è spesa a livello interclassista ed a prescindere dallo spessore culturale di chi ne fa scientemente uso.

Anche per loro si approva la definizione IHRA di antisemitismo, perché certi getti di fango non saranno sanzionati, ma cambieranno colore. E quando un intellettuale farà ascoltare la voce di un anonimo che dice “le vittime di ieri sono diventate i carnefici di oggi”, non ci penserà due volte, perché ormai l’odio gli ha deformato l’eloquio e la mente, ma, vivaddio, gli si potrebbe finalmente rispondere con solidi argomenti.

Si troverà sicuramente in buona compagnia con coloro che sostengono che gli ebrei controllano l’economia, lo sport, i media, la cultura, la salute, la filatelia, il sesso, le bocciofile, l’enigmistica, il teatro, la filosofia, l’aria, la terra, il sottosuolo e perfino gli scantinati. Forse è stato pensando a tutti costoro che Erich Fromm (ebreo, come Gesù, Marx, Freud, Einstein..) scrisse Paura della libertà.

Eh sì, senza l’antisemitismo vi è il rischio, per gli ebrei e per i non ebrei, di sentirsi liberi, molto più liberi. E la libertà, in quanto comporta anche l’assunzione di responsabilità, mette paura.

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