Qualcuno afferma, non senza riferimenti suggestivi, che Leonardo da Vinci sarebbe il vero inventore della fotografia. Se non in senso stretto, almeno in quello visionario, avendo egli tra l’altro descritto la sua “camera obscura” e studiato la luce. Da quando Maurizio Galimberti si è affermato come autore, c’è chi lo definisce fotografo e chi lo definisce artista, due parole che non sono necessariamente intercambiabili. Io, nel dubbio e per tagliare la testa al toro, ne propongo una terza: inventore. Anche per Leonardo da Vinci quello d’inventore è l’attributo che riassume le sue molteplici attività: inventore non era solo nelle avveniristiche visioni di carrarmati, elicotteri, sommergibili, sistemi idraulici eccetera, ma anche in pittura, in anatomia, in scrittura, in chimica.

Questi due inventori, a distanza esatta di mezzo millennio, si sono incontrati, e non poteva che esplodere qualcosa. E’ così “esplosa” la mostra Il Cenacolo di Leonardo da Vinci che ancora per qualche giorno – fino al 12 gennaio – si può visitare a Milano nella Sala delle Colonne alle Gallerie d’Italia, curata da Denis Curti.

Maurizio Galimberti è molto conosciuto per aver appunto inventato un suo personale linguaggio a partire dall’utilizzo del materiale Polaroid, e con i suoi celebri mosaici (assemblaggi di molte foto riprese in successione con angolature diverse sul medesimo soggetto) ha indagato e restituito alla sua maniera volti di personaggi famosi e gente comune, città, architetture e altro. Lo fa, seducendo critici e collezionisti, da oltre 30 anni.

E’ lui stesso a suggerire come questa visione frazionata della realtà derivi dai suoi anni d’infanzia trascorsi in orfanotrofio, dove guardava il mondo esterno attraverso le griglie delle inferriate alle finestre. Griglie che ritroverà più tardi nei ponteggi dei cantieri del padre adottivo, dove Maurizio era abilissimo nel calcolare a mente quanti tubi, raccordi e tavole sarebbero serviti per coprire un’intera facciata: gli era già naturale scomporre e ricomporre lo spazio.

Ma credo che con questo “corpo a corpo” col genio nato a Vinci abbia raggiunto un’intensità nuova. In sostanza si tratta della sovrapposizione di due visioni, quella odierna a quella antica, dunque un’operazione che non restituisce solo il risultato del fotografo al lavoro sul suo soggetto – cosa o persona che sia – ma che genera un vero cortocircuito creativo tra due autori. Dunque in Galimberti – e lo si percepisce immediatamente – è scaturito un grande rispetto e quasi un timore reverenziale che gli ha indicato non tanto l’esplorazione, pratica a lui consueta, ma piuttosto l’immersione. Un viaggio più verticale che orizzontale.

Maurizio Galimberti (foto L. Bertolucci)

Quando ha deciso di confrontarsi col Cenacolo ed è passato all’azione, non poche sono state le complicazioni operative: la tecnica di Galimberti comporta la necessità di appoggiare l’apparecchio fotografico, opportunamente modificato, al soggetto, ed è facile capire come l’idea di appoggiare qualcosa sulla superficie del Cenacolo di Leonardo non fosse praticabile. Allora il nostro fa realizzare addirittura una stampa in altissima risoluzione a grandezza naturale, e stiamo parlando di una riproduzione di 8,9 x 1,4 metri. Su questa ha poi lavorato per mesi, entrando in una sorta di ossessione che gli maturava, giorno dopo giorno, nuove visioni, nuove soluzioni, alternando anche apparecchi diversi (Instant Camera 600 e Spectra, Fuji Instax Square SQ 20 e la mitica Polaroid Giant Camera, banco ottico 50×60 da oltre 100 kg di cui esistono pochissimi esemplari al mondo costruiti artigianalmente).

Il risultato è davvero la strada per una conoscenza nuova – incredibilmente ancora possibile – dell’Ultima Cena di Leonardo. Conoscenza visiva, tecnica ed emotiva. Così come in quell’opera Leonardo ha messo la sua visione, le sue competenze tecniche e la sua emotività. Per rendersene conto bisogna essere fisicamente davanti alle opere, tutte di grande formato, collocate in quella sala del Museo del Novecento che, avvolta nel silenzio e con le sue colonne, rappresenta quasi un tempio.

Se parliamo di tempio, parliamo anche di santi: Santa Veronica – non tutti lo sanno – è la santa protettrice dei fotografi (la si ricorda il 12 luglio). Questo è legato alla tradizione secondo cui Veronica custodì per prima il sudario che avvolse il corpo di Cristo deposto dalla croce. Il collegamento è che quel lenzuolo, oggi venerato come Sacra Sindone e conservato a Torino, è considerato da alcuni anche, in qualche modo, come il primo negativo fotografico. In effetti l’immagine di un uomo con corona di spine e ferite come descritto nelle Sacre Scritture è stata rivelata appieno solo dopo che, per la prima volta, la Sindone venne fotografata; sulla lastra negativa si materializzò, nel 1898, quella figura in positivo e dunque riconoscibile: positivo in quanto era il negativo di un negativo. Notoriamente la Sindone è molto controversa quanto ad autenticità, così come controversi sono i risultati di tutte le indagini scientifiche con le relative datazioni.

Sta di fatto che – guarda caso – tra le ipotesi più accreditate dagli scettici c’è quella che proprio Leonardo ne fu il creatore, grazie alle sue conoscenze “fotografiche” e alchemiche. E che addirittura il volto che vediamo sia il suo. Non sarò certo io a lanciarmi in giudizi e valutazioni, ma collegare Leonardo da Vinci alla fotografia resta una grande e intrigante suggestione.

Maurizio Galimberti, solido autore, non ha certo bisogno di suggerimenti, ma io azzardo che un suo ipotetico lavoro sulla Sacra Sindone potrebbe risultare potentissimo, consentendogli di proseguire e approfondire una sua “religione fotografica” molto presente nel lavoro sul Cenacolo. Ci sarebbero tutti gli ingredienti per un’altra grande avventura spirituale e visiva lavorando fotograficamente sul più misterioso e incomprensibile “negativo” che forse proprio a Leonardo ci riporta e che in ogni caso – vero o falso che sia – rimanda all’inconoscibile.

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