Nel discorso di fine anno il presidente della Repubblica ha mostrato una foto dell’Italia ripresa dallo spazio e ci ha invitati a guardare il nostro Paese allontanando gli occhi dal particolare, imponendo una distanza di sicurezza del pensiero dalla rabbia, della riflessione dalla passione e a volte dall’ossessione.

Consiglio accettato. Riguardo quell’immagine e vedo che il corpo dell’Italia è illuminato ai suoi bordi e invece spento al centro, nel suo cuore. Come un barcone strapieno ai lati, ma vuoto nel suo mezzo. Ai lati del tronco le grandi città metropolitane, al vertice una grande chioma illuminata da migliaia di luci. Nella pianura padana non un millimetro è al buio. Zeppi, stretti l’uno sull’altro, gli italiani occupano la chioma e lasciano scoperto il busto. Tutto buio fino ai piedi. E’ il Sud che emigra e si spegne.

Siamo tantissimi in poco spazio. E pochi, anzi pochissimi nel resto del Paese.

Quindi ai bordi la gente si accalca. Il sovraffollamento genera crisi sistemiche. Ospedali zeppi, abitazioni costose, servizi meno efficienti o più onerosi: strade, rifiuti, uffici burocratici, scuole. Tutto preso d’assalto. Una vita più difficile e più impegnativa dal punto di vista economico, più dispendiosa anche nel consumo del tempo disponibile.

Al centro invece tutto buio. E specularmente la crisi sistemica è per spopolamento. Gli ospedali chiudono, le scuole anche, le abitazioni deperiscono, chi nasce parte, chi resta non fa figli, i paesini muoiono.

Abbiamo mai immaginato di creare le condizioni perché questo disastro del tutto pieno e del tutto vuoto sia mitigato?

Abbiamo mai pensato che un sistema per rallentare l’esodo e riequilibrare un po’ la barca che in questo modo naviga a fatica e rischia di affondare, ci sarebbe?

Se avessimo collegamenti più celeri, più comodi, più efficienti e più economici tanti di noi non lascerebbero il proprio borgo, alcuni di noi chiederebbero anzi di viverci.

Se potessimo abitare dove siamo nati, se cioè fossimo messi in condizioni di raggiungere abbastanza agevolmente il nostro luogo di lavoro, forse non ci spingeremmo nelle periferie, non ci accalcheremmo nella cortina indistinta delle grandi cinture urbane.

Se ci pensate, l’unico, grande vero taglio che da circa trent’anni si è compiuto inesorabile, è quello delle rotaie. Migliaia di chilometri di binari fatti arrugginire, tutte le tratte locali, quelle meno fruttuose, sepolte dai rovi. Ci hanno spiegato che erano rami secchi, improduttivi.

Invece il treno è un grande ammortizzatore sociale perché ci permette di vivere nella nostra casa, quindi spendere meno e soprattutto tenerla agibile. Ci permette di mandare i nostri figli nella scuola del paese, quindi non farla chiudere. E se abitiamo lì dove siamo nati, se riusciremo a restarvi, anche i servizi essenziali (ospedali, strade, uffici) rimarrano in funzione.

E se non ci spostiamo, o almeno se per alcuni di noi sarà possibile non spostarsi, anche le periferie delle città saranno alleggerite dal peso del sovraffollamento e dagli effetti collaterali (aumento del costo della vita) che comporta il costo della vita.

Risparmierà chi resta in paese e risparmierà anche chi vive in città.

Il treno è un sistema di trasporto pulito, compatibile, sostenibile. Non inquina, non ha paura della nebbia, non ha problemi neanche con la neve. Il treno non consuma suolo, non produce traffico, non incolonna le lamiere inchiodandole sull’asfalto. Il treno è come un bruco. Se è efficiente è comodo, veloce, economico.

L’invito che faccio a chi governa l’Italia per il 2020 è di fermarsi dunque un attimo a pensare. Riflettere sull’Italia e anzi, come ha consigliato Mattarella, guardarla da lontano, tenere una distanza di sicurezza della riflessione dall’ossessione, del pensiero dalla polemica quotidiana.

Prima pensare, poi parlare.

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