Aria di feste, sediamoci a tavola con Germana Militerni Nardone, storica della gastronomia, ha insegnato a cuochi e ha tenuto corsi di arte culinaria, attenta al giusto equilibrio fra tradizione e innovazione. E’ l’anti master chef, si è messa ai fornelli quando si chiamavano ancora cuochi e avevano il grembiule imbrattato di sugo. Adesso sono bianchi e immacolati da ribalta televisiva. “Nozioni e cognizioni gastronomiche” (Guida editori) è un titolo quasi dotto e insegna alla generazione delle sue nipoti, Clara e Piera Tuccillo, 27 e 22 anni, entrambe laureate in giurisprudenza, come apparecchiare una tavola (fiori e candele inclusi), l’ordine della portate secondo un bon ton da gourmet. Il galateo questo sconosciuto alla generazione degli smanettatori che non sanno dove mettere le mani quando si trovano una sfilza di forchette, forchettine, coltelli, cucchiai, cucchiani, e che magari scambiano la bol per il brodo per quella per sciacquarsi le dita.

Donna Germana, una deliziosa signora di 80 e passa anni, si è cimentata anche nei ricettari di ebraismo, cattolicesimo e islam nel manuale per palati fini “Dimmi che mangi e ti dirò in chi credi”. Perché il benessere dell’anima non è a prescindere da quello del corpo e dà “laici” indicazioni alimentari. Con lei si entra alla corte dei re, nei bassi dei quartieri spagnoli, nei salotti più aristocratici. Ricorda come la cucina nobiliare del Regno di Napoli, quando Napoli era la città più popolosa d’Europa e ed era conosciuta in tutta Europa per l’opulenza, la raffinatezza e l’estro dei “monzù” (abbreviazione maccheronica di monsieur, ossia il cuoco). Mentre la cucina napoletana, popolare, era costituita da minestre di verdure che solo in speciali occasioni si “maritavano” con la carne che diventava carnecotta. I primi venditori di maccheroni erano ambulanti urlanti: Chi tene ‘a magna nun tene ‘a penza’. Tradotto: chi ha da mangiare non tiene pensieri.

Sfogliando il ricettario festaiolo i nomi sono da impennata del colesterolo: mezzanelle “cape e core” con teste e code di capitone, polpette al cognac, polpettone e zeppole di baccalà. In tema di palle e addobbi, ci sono le palle di tagliolini, versione natalizia degli arancini di riso. Il glossario gastronomico sembra uscito da una commedia di Eduardo De Filippo: incamiciare ( ricoprire le pareti di uno stampo); far sudare ( cuocere la carne a fiamma bassa per farne uscire l’umidità. E poi ancora lardellare ( avvolgere in filetti di lardo), accosciare ( che non è quello che pensate voi), parare ( dare una bella forma) cioè pronta per un selfie. Infine c’è il mitico spaghetto con taralli cucinato da Antonella Tuccillo, figlia di Germana e avvocatessa, per Gianni Barbacetto alla cena post/presentazione del suo libro “Angeli Terribili”. Barbacetto osò: “Il tarallo è una specie di cracker…?”. Antonella sorrise alla gaffe gastronomica: “E’ una specialità solo napoletana. Sono fatti di sugna, pepe e mandorle. Voglio che il tarallo come la pizza diventi patrimonio dell’Unesco…”.

P.S. La sugna per i non napoletani è lo strutto, il grasso di maiale. A Napoli, verso la fine del ‘700, i fornai non si sognavano di buttare via lo ”sfriddo”, cioè i ritagli, della pasta con cui avevano appena preparato il pane da infornare. A questi avanzi di pasta lievitata aggiungevano un po’ di nzogna e pepe, e con le mani riducevano la pasta a due striscioline che attorcigliavano tra di loro, davano a questa treccia una forma a ciambellina, e via nel forno.

Fb pagina Januaria Piromallo

Articolo Precedente

Quattro principesse reali (anzi cinque) in the Room. I napoletani si scoprono di animo borbonico. E tra un Salvini e un Di Maio (scegliere non saprei)

next
Articolo Successivo

Bucarest, 31 dicembre 1989. Ricordo caos e euforia. Con Michele Soavi brindammo con acqua minerale nella metropolitana

next