di Claudia De Martino*

La Repubblica islamica d’Iran e Israele non sono stati sempre Paesi nemici: diversamente da come si pensa, anche dopo la Rivoluzione islamica e l’accesa retorica iraniana antioccidentale, i due Paesi hanno continuato a mantenere discreti rapporti militari e diplomatici. Israele avrebbe infatti rifornito l’Iran di armi nella guerra contro l’Iraq (1980-88) e i due Paesi avrebbero concordato tra loro la distruzione dei reattori nucleari iracheni di Tamuz/Osiraq. A sostenere questa insolita alleanza, oggi del tutto seppellita dalla storia, era la comune estraneità e ostilità ad un mondo arabo sunnita allora egemonico nella regione.

I Paesi arabo-sunniti sono ancora lì, ma la loro presunta unità è venuta meno e la rivalità regionale si è invece spostata contro l’Iran, identificato come una potenza revisionista che intende perseguire i propri obiettivi militari attraverso l’acquisizione della bomba atomica.

Così dal 2003 l’Iran è diventato il principale avversario delle potenze arabe della regione, nonché il peggiore nemico di Israele, battezzando una nuova alleanza israelo-sunnita. Da allora, dai propositi antisemiti sbandierati dal presidente Ahmadinejad all’aperto sostegno iraniano a milizie islamiche e anti-israeliane come Hamas ed Hezbollah, l’Iran è stato identificato dallo Stato ebraico come una “minaccia esistenziale” e bollato dall’uscente premier Netanyahu come uno “Stato nazista, che prepara un nuovo Olocausto”.

È per questa ragione che Israele ha sempre rifiutato l’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa) siglato nel 2015, denunciandone l’incapacità ad affrontare il pericolo multiforme rappresentato dalla politica iraniana nella regione. Accuse respinte da Teheran che ha sempre insistito sulla propria fedeltà all’accordo e sulla propria piena collaborazione con gli ispettori dell’Iaea, fino a quando gli Stati Uniti hanno deciso unilateralmente di reimporre al Paese le sanzioni precedentemente rimosse.

Il “muro-contro-muro” tra Israele e Iran sembra al momento definitivo, ma nonostante il rischio di escalation militare rappresenti attualmente una seria minaccia alla sicurezza regionale, essi non sono nemici atavici ed esistenziali come una parte delle rispettive leadership politiche vorrebbe dipingerli. Forse oggi le rispettive società civili, entrambe impossibilitate a visitare il Paese avversario, sono reciprocamente più diffidenti, ma certo non sono culturalmente blindate le une verso le altre.

La parte dei cittadini iraniani più profondamente occidentalizzata è attratta dall’emigrazione in Paesi in cui tanto le libertà individuali quanto le possibilità economiche sono maggiormente garantite, ma neanche l’establishment islamico è impermeabile a influenze culturali esterne. All’origine del rapporto vi fu la fascinazione che una parte dei rivoluzionari iraniani anti-Shah nutrirono nei confronti di Israele come Paese-modello di autentica rinascita regionale.

Tra questi spicca una testimonianza d’eccezione, il reportage che un importante intellettuale iraniano, Jalal Al-e Ahmad, realizzò nel 1964 dopo aver effettuato un viaggio nel Paese a spese delle autorità israeliane: un viaggio attraverso il quale lo scrittore propose Israele come un esempio di rinascita nazionale per lo stesso Iran, sottolineandone le caratteristiche che lo legavano ai Paesi islamici, proprio quelle che l’hasbara (la propaganda) israeliana tende costantemente a minimizzare ad uso e consumo della stampa occidentale. Ma quali sono le caratteristiche che rendevano Israele un esempio di Stato religioso ideale agli occhi dell’intellettuale iraniano?

1. Ahmad le identificava nella fede incrollabile di Israele nel proprio destino, il destino comune di un’unica comunità di fede (e non di uno Stato come comunità politica residente su un dato territorio, nell’accezione occidentale del termine), esemplificato nelle sue parole dal processo al nazista Adolf Eichmann, in cui le autorità del neonato Stato si arrogano il diritto di difendere la dignità e l’eredità di sei milioni di connazionali che pure non erano mai stati suoi cittadini.

2. Il secondo punto era la giustizia sociale, rappresentata dai kibbutz e dalle comunità agricole di base, collettivamente fondate sulla redistribuzione delle risorse.

3. Il terzo era l’istruzione universale, che rendeva Israele un Paese di persone consapevoli e all’altezza della propria missione nazionale.

4. Infine, e forse è il punto che più colpisce un lettore europeo, vi era la possibilità, espressa per la prima volta da Israele, di instaurare un rapporto diverso con l’Occidente, ovvero di essere un Paese in contatto con la cultura occidentale senza esservi asservito, senza rinunciare alla propria identità profonda, che era altra ed esente da una forsennata occidentalizzazione, che Ahmad chiama “occidentossicomania”, una malattia comune a tutti i Paesi del Terzo mondo. Israele, invece, attraverso l’ostinata adesione alla sua martirologia (l’Olocausto e la sua memoria) sapeva come ricattare l’Occidente pur restando completamente indipendente a livello politico e sfruttandolo per i propri fini.

Ahmad identificava la rinascita di Israele come un miracolo politico, nel senso di un “evento opposto alla norma e alle tradizioni, contro il diritto internazionale, ispirato a valori ben più nobili della dichiarazione universale dei diritti umani” (La repubblica israeliana, 1964), ribandendo come la logica del neonato Stato ebraico spiccasse per indipendenza nei confronti delle altre potenze mediorientali e soprattutto di quelle arabe, che invece erano smembrate o asservite alle potenze occidentali.

Fa uno strano effetto rileggere oggi le parole di un intellettuale iraniano, grande precursore della rivoluzione islamica, incensare Israele ed eleggerlo ad esempio di rivoluzione morale e materiale per il Medio Oriente, ma forse è bene rispolverare i fertili contatti e prestiti intellettuali che legano tutti i Paesi della regione per non cadere nello stereotipo che li rappresenta come isole blindate, le une contro le altre armate.

*ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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