di Marco Marmeggi

Con quella faccia lì, che sembra Gennarino Carunchio nel film di Lina Wermuller, Dario Ercolano ti racconta la sua vita con la facilità con cui da bambini si scartano i regali. E te la mette lì, quella vita rocambolesca, come se decidere di tagliarsi una gamba a 30 anni fosse la cosa più naturale del mondo.

Nasce focomelico, con una malformazione alla gamba destra che si porta avanti fino al 31 agosto del 2007, giorno del suo 36esimo compleanno. E’ lì, sdraiato in un letto d’ospedale, la decisione di amputarla presa con la paura e la certezza di entrare in sala operatoria e di uscirne diverso. “Una rinascita”, mi dice. L’operazione va bene, il ramo secco reciso per i germogli più verdi, gettato nel pozzo del passato, scomparso, in tutti i sensi. Al posto suo una protesi in carbonio che quando cammina sembra che al massimo si sia slogato una caviglia.

Se ne accorgono solo gli avversari di regata che gli manca una gamba, quando le barche si strusciano, vicinissime, l’una all’altra per tagliare la linea di partenza. Lì Dario sfodera una tecnica per distrarli che è roba da non crederci. Va a prua, si mette sopravento, e quando le barche sembrano quasi toccarsi, lui quella gamba bionica se la gira al contrario e appoggia il piede rovesciato sulle draglie. Sorride, beffardo, con lo sguardo tagliente del pugile che è stato mentre gli avversari lo guardano increduli e noi passiamo avanti.

E’ un tipo tosto, Dario Ercolano. Tostissimo. E per chiarire ogni dubbio, in questa specie di intervista che gli ho fatto mentre navighiamo a dieci nodi su una barca da corsa durante un suo allenamento, mi racconta anche questa. Una storia che parte lontano, quando lui aveva 12 anni, andava alle medie e la gamba destra era ancora attaccata al suo posto, più corta di 25 centimetri del piede buono.

La storia inizia tra le poltrone di pelle sintetica di un parrucchiere nelle vie di Livorno, tra l’odore di shampoo e il vapore aspro delle permanenti. Sua madre aspetta e sfoglia una rivista a colori. Tra una foto e l’altra, legge un trafiletto di poche righe che parla di Carlo Mauri, un alpinista e fotoreporter italiano che nel ’53 ha aperto la prima invernale sulla parete Nord di Lavaredo insieme a Walter Bonatti. Un pazzo, insomma, ma di quei pazzi che fanno sognare.

L’articolo parla dell’intervento chirurgico che Mauri ha subito qualche anno prima alla tibia, nella Russia sovietica di Nikita Krusciov. Viene operato da Gravil Abamovic Iliazarov, un medico diventato famoso per aver inventato un apparato in grado di ridurre e allungare gli arti. Sembra uno di quegli articoli di poca importanza, ma la madre di Dario si informa, domanda e chiede ai chirurghi che seguono suo figlio se quella gabbia fatta di anelli, tiranti e bulloni possa riuscire a far mettere a terra quel piede destro che se ne sta sospeso in aria.

E’ amore, totale, una speranza liquida allo stato puro. Passa un anno, Iliazarov viene proclamato Eroe del Lavoro Socialista. Anche in Italia si parla di lui, i medici di Milano suggeriscono di tentare la strada incerta che dalla Toscana porta dritto a Kurgan, nella Siberia Occidentale, una città a qualche centinaia di chilometri dal confine con il Kazakistan, arida e gelida. E’ il 1982 e Dario vola a Mosca con un visto medico, poi raggiunge la clinica di Ilizarov nel cuore della città. Trascorreranno 18 mesi, 540 giorni, un anno e mezzo lunghissimo. Dario, all’epoca, non può immaginare cosa lo aspetti, il dolore che dovrà sopportare, ancora bambino, a migliaia di chilometri da casa.

“Vivevo in ospedale”, mi racconta, in un momento di stanca in cui la barca si mette orizzontale. “Mancava tutto, a volte non c’era l’acqua perché gelava nei tubi e l’anestesia totale veniva fatta raramente per risparmiare. Non sai quante volte mi hanno portato avanti e indietro dalla sala operatoria perché mancava sempre qualcosa”.

Con il primo intervento gli spaccano le ossa della gamba, poi montano l’apparato di Ilizarov sul femore, la tibia e il piede, tre anelli di acciaio, collegati alle ossa con barre filettate e chiodi. Ogni giorno un giro di vite, ogni giorno un millimetro di callo osseo in più per far colmare alla gamba destra il vantaggio con cui è nata la sinistra. Tutto va storto, in quella clinica in cui invece si doveva rendere uguale ciò che è stato creato diverso. Il femore si infetta e la gamba sembra scivolare verso la cancrena. Inizia un calvario di mesi, la gamba viene messa in trazione, la febbre a 40 diventa una compagna immaginaria sdraiata nel letto ogni sera. “La polizia segreta ci controllava”, mi dice, “avevano paura che potessimo raccontare qualcosa in Occidente e mettere in cattiva luce l’immagine dell’Urss. Mia madre e mio padre al telefono parlavano napoletano per non farsi capire”.

Quando arriva il giorno di tornare a casa e lasciare la città a gelare nel freddo, Dario si alza dal letto, debolissimo, e appena posa a terra la gamba martoriata, le sue ossa non ce la fanno a reggere il peso, si rompono e il femore gli esce dalla coscia. Viene operato d’urgenza, nuovamente, e ingessato fino al torace. E’ una mummia, bianca e dura, una farfalla imprigionata nel bozzolo che non vuole lasciarla volare.

Torna a Mosca sdraiato tra le poltrone passeggeri di un Tupolev 134, un bimotore russo sviluppato in Unione Sovietica negli anni ’60. Da Mosca a Roma, poi finalmente a casa. La storia finisce come era iniziata. In Italia lo rimettono sotto i ferri e la gamba allungata torna corta, l’epilogo del paradosso, poi decide di lasciarla indietro insieme ai ricordi della sua infanzia. E’ il 2007, il cerchio si chiude e la linea della vita parte in altre direzioni.

Ha lavorato come meccanico di automobili mentre si allenava in una palestra di boxe per diventare uno dei primi pugili disabili della storia italiana. Picchia il sacco, salta la corda e sale sul ring. Combattere si dice per chi lascia il suo angolo per raggiungere l’avversario e iniziare una lotta. Bisogna essere in due, ci vuole coraggio, paura, tecnica e forza, ma soprattutto rispetto, per chi, insieme a te, produce il suono del battere insieme. Senza l’altro non siamo nessuno, non produciamo rumore, con i pugni come con le parole.

Il 27 agosto del 2016 è in Inghilterra, chiamato dalla Federazione Italiana Pugilato a disputare un torneo con altri pugili disabili provenienti da tutto il mondo. Arriva in finale, davanti al campione del mondo della boxe in piedi Lucky Boy Milligan. Dario perde ai punti, ma non va giù. “Ce le siamo date di santa ragione”, conferma soddisfatto. “Lucky mi disse di non aver mai incontrato un avversario così forte”. E’ il suo ultimo incontro, bisogna saper lasciare al momento giusto. La boxe rimane un pezzo di lui, i guantoni appesi al chiodo, ma non la voglia di tirare al sacco nella palestra popolare in cui è cresciuto.

E il mare?, gli chiedo quando ormai siamo arrivati al porto e lui comincia a disarmare la barca e a piegare le vele. “Il mare”, risponde, “il mare c’è stato sempre. Negli anni in cui ho vissuto sull’isola di Capraia, nella città in cui sono cresciuto. Non avrei fatto tutto quello che ho fatto, se non avessi avuto il mare da respirare ogni giorno”.

Oggi, mentre ci beviamo una birra e le drizze tintinnano al vento, oggi il sogno di Dario Ercolano è l’oceano, il grande Oceano Atlantico da attraversare in doppio, insieme ad un altro comandante disabile come lui. Per poter dire al mondo che, alla fine, i veri disabili siamo noi.

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