Jeanine Anez, rappresentante del partito di destra Movimiento Democrata Social e vicepresidente del Senato è la sessantaseiesima presidente della Bolivia, dopo l’autoproclamazione avvenuta all’interno del Palacio Quemado, che ospita l’esecutivo. Di professione avvocatessa e con un passato da presentatrice televisiva, l’attuale presidente, 52 anni e originaria di Trinidad, si ritrova ad affrontare una sfida impegnativa in un momento di travaglio politico: guidare un governo di transizione fino alle prossime elezioni.

E’ la seconda volta che la Bolivia viene guidata da un presidente donna: l’unico precedente è datato 1979 e porta il nome di Lidia Guillier. Ma il 12 novembre verrà certamente ricordato come un giorno lungo e non privo di colpi di scena, ormai leitmotiv di un periodo segnato da numerosi capovolgimenti di fronte. Di fatto, la sessione dell’assemblea legislativa si era aperta senza la presenza dei deputati del Movimento al Socialismo (Mas), partito dell’ex presidente Evo Morales, la cui assenza ha provocato lunghi ritardi nell’applicazione della norma costituzionale che l’opposizione ha da subito stigmatizzato come violazione dei diritti del popolo boliviano.

La giornata era cominciata con i peggiori auspici: la tragica morte del Tenente Colonnello della Polizia dell’Unità Tattica per le Operazioni Speciali (Utop), Heybert Yamil Antelo, investito da un veicolo in fuga durante uno scontro a fuoco nella città di El Alto. Località che in questi giorni è balzata agli onori delle cronache per fatti di estrema brutalità: la morte del Colonnello è solo l’apice di una escalation di violenza che da giorni si sta consumando e che ha lasciato numerosi feriti per strada.

Il rigurgito di violenza ha avuto il suo picco nell’ultimo fine settimana, facendo eco all’atto di rinuncia alla presidenza di Morales, culminando nei tragici fatti di domenica notte: i saccheggi nelle zone popolari di La Paz (Calle Eloy Salmon e Mercato di Calatayud) e l’incendio di 64 nuovi bus nel deposito Pumakatari e della residenza dell’attuale rettore dell’Universidad Mayor de San Andrés, Waldo Albarracin. Atti di violenza che l’opposizione ha imputato alle frange violente del popolo di El Alto, presumibilmente simpatizzante del Mas, che rifiuta la nomina della Anez e che ad oggi non intende scendere a compromessi col nuovo governo.

Da tempo l’opposizione accusa l’ex presidente Morales di incitare all’odio contro gli avversari politici, accuse sempre rigettate dal Mas e a tutt’ora prive di fondamento. Ciò che pare aver provocato prima indignazione e, in seguito, una violenta reazione da parte del popolo di El Alto è il gesto provocatorio di alcuni agenti di polizia che in un video, pubblicato in rete e dalle emittenti locali, si strappano le mostrine col simbolo Whipala dalla divisa, emblema dei popoli indigeni, e successivamente danno fuoco alla relativa bandiera.

Intanto, l’ex presidente Morales, che già negli scorsi giorni aveva accusato l’opposizione, nelle persone di Fernando Camacho (leader civico di Santa Cruz) e Carlos Mesa (ex vicepresidente ai tempi del tragico Ottobre nero boliviano nel 2003), di colpo di Stato, ieri in un tweet ha pubblicato la sua intenzione di denunciare presso la comunità internazionale l’autoproclamazione della senatrice Anez che violerebbe la Cpe (Costituzione politica dello stato) della Bolivia e le norme interne dell’Assemblea legislativa.

A smentire però il presidente Morales è oggi il Tcp (tribunale costituzionale) che interviene sancendo la costituzionalità dell’investitura della senatrice beniana secondo l’articolo 170 della costituzione boliviana che stabilisce la “cessazione della presidenza, tra le altre cause, per assenza o impedimento definitivo”.

Ma la confusione che investe lo scenario politico nazionale e che divide i due fronti si riflette anche a livello internazionale nel tavolo dell’Organizzazione degli Stati Americani (Oea), ieri riunitosi in seduta congiunta per dibattere sui destini della nazione boliviana. Sul tavolo del dibattito il presunto golpe e la presunta frode elettorale, su cui ancora non esiste prova certa ma solo la detenzione preventiva dei membri del Tse (Tribunale supremo elettorale) e le accuse mosse dall’opposizione al Mas e da alcuni attori internazionali (su tutti gli Stati Uniti). La riunione di ieri ha certificato la posizione ufficiale di 15 paesi (tra cui Usa, Brasile e Argentina) in merito alla soluzione della crisi in Bolivia: garantire urgentemente nuove elezioni.

Di tutt’altro parere la rappresentante del governo messicano, Luz Elena Baños Rivas, che ha offerto asilo all’ex presidente Morales e sottolinea come “il Messico nutre seria preoccupazione di fronte allo smantellamento dell’ordine costituzionale in Bolivia, dove si è verificato un colpo di Stato che il Messico condanna con forza”. Il segretario generale dell’Oea, Luis Almagro, esprime comunque il totale rifiuto di qualsiasi soluzione incostituzionale alla crisi boliviana richiamando alla pacificazione e al rispetto dello stato di diritto.

In questa situazione di incertezza permane un interrogativo centrale: cosa ha portato alle dimissioni di Evo Morales? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare ai fatti di sabato che hanno registrato l’ammutinamento della forza di polizia di Cochabamba, decisione in seguito appoggiata dalle forze di altri dipartimenti tra cui Santa Cruz e per ultimo La Paz. La decisione estrema maturata in seno alle forze di polizia va interpretata all’interno di un vortice di protesta e di coinvolgimento popolare innescato dall’irruzione sulla scena politica di un personaggio dalla forte carica emotiva, Luis Fernando Camacho, leader del Comite civico di Santa Cruz. Personaggio dotato di indubbio carisma che coi suoi discorsi ha infiammato la folla crucena nel dopo elezioni. Il suo intervento ha tracciato un solco incolmabile tra i sostenitori del cambiamento, ergo oppositori di Morales, e coloro che richiedevano il rispetto dell’esito delle urne.

La decisione della polizia a cui ha fatto seguito il rifiuto del generale dell’esercito boliviano di schierarsi contro il popolo in protesta, e contro la stessa polizia, hanno fatto il resto. La scelta di Morales è pertanto la conseguenza di una situazione ormai fuori controllo per l’esecutivo del Mas.

Per capire perché l’intervento di un personaggio come Camacho possa avere influito sulle sorti politiche del Paese occorre specificare il ruolo dei “comites civicos” in questo scenario. Questi fanno leva, più che sul potere politico, di cui sono privi, sull’esercizio della pressione e dell’influenza nelle decisioni politiche del paese. Nient’altro sono che assemblee popolari con a capo un lider.

La Bolivia conta nove dipartimenti, ognuno dei quali consta di un comite. Il più influente è quello diretto da Camacho, in virtù del peso economico che la ciudad di Santa Cruz riveste nello Stato boliviano.

Alle pressioni esercitate dai comites si sommano quelle delle categorie sociali e professionali: medici, studenti, minatori, cocaleros e altri. Ogni categoria ha una sua rappresentanza storica politica. Nella fattispecie del caso boliviano, il passaggio dei minatori e dei cocaleros, storici sostenitori del Mas, all’opposizione ha giocato un ruolo determinante nell’instaurazione del governo di transizione.

In ottica futura, il risveglio della capitale politica, La Paz, è stato tutt’altro che incoraggiante e quella che ieri è stata celebrata come vittoria della democrazia e ritorno alla normalità in realtà nasconde numerose incertezze e insidie: in primis, la decisione del popolo dei campesinos e di parte de la Ciudad de El Alto, di non aderire alle manifestazioni di giubilo di parte del popolo boliviano e, al contrario, di riprendere oggi stesso la marcia con destinazione Plaza Murillo. La situazione di normalità appare a tutt’ora ben lungi dall’essere ripristinata.

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