La guerra dei dazi e la reazione troppo debole dell’Europa, il tracollo del settore auto, il boom dell’acciaio turco a prezzi stracciati. L’addio di ArcelorMittal all’ex Ilva di Taranto è solo la punta dell’iceberg della crisi in cui versa l’industria siderurgica europea. Nei primi nove mesi del 2019 la produzione di acciaio del vecchio Continente è scesa del 2,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno mentre quella mondiale cresceva del 3,9 per cento. Pesano i rallentamenti in Germania (-4,4%) e Italia (-3,9%), i due Paesi dove si concentra più di un terzo di tutto il comparto. E a farne le spese sono i lavoratori dell’acciaieria di Dunkerque in Francia e di Eisenhuttenstadt in Germania, oltre a quelli polacchi di Cracovia e agli impianti spagnoli delle Asturie. Tutti del gruppo Arcelor, primo player mondiale del settore, e tutti alle prese con tagli ai ritmi produttivi ed esuberi. Al termine di un anno che – secondo le stime di Eurofer (l’Associazione europea dell’acciaio) – rischia di essere il peggiore dell’ultimo decennio.

Da ArcelorMittal a Thyssen: acciaierie in crisi in tutto il Continente
La sequenza di imprese che nel corso dell’anno hanno annunciato pesanti cali alla produzione è indicativa dello stato di salute dell’intera industria. È il caso di ArcelorMittal, colosso che secondo i dati di World steel association è il primo player del settore con 96,4 milioni di tonnellate annue. A maggio la multinazionale anglo-indiana ha fatto sapere di volerla tagliare di 3 milioni di tonnellate, in particolare negli stabilimenti spagnoli delle Asturie. E solo poche settimane dopo il provvedimento è stato esteso alle acciaierie di Dunkirk in Francia e di Eisenhuttenstadt, al confine tra Polonia e Germania. Non è andata meglio alla tedesca ThyssenKrupp, reduce da un matrimonio mancato con gli indiani di Tata Steel. Le due società avevano avviato nel 2017 le trattative per una fusione, ma l’ex commissaria Ue alla Concorrenza Margrethe Vestager ha deciso di bloccare tutto “per evitare gravi danni ai clienti industriali e proteggere gli interessi dei consumatori europei”. Decisione che però ha portato Thyssen ad annunciare il taglio di 6mila posti di lavoro e la stessa strada potrebbe essere seguita dall’azienda con sede a Bombay. Ancora peggio è andata alla British steel, finita in amministrazione controllata in primavera per presunte incertezze dei clienti legate alla Brexit. In bilico ci sono 5mila lavoratori – oltre ai circa 20mila dell’indotto – e un impianto capace di sfornare 2,5 milioni di tonnellate di acciaio ogni anno. Un asset su cui, stando alla Bbc, avrebbe messo gli occhi il gruppo cinese Jingye.

Tutti i numeri (in calo) dell’industria siderurgica europea
I problemi sono iniziati a metà del 2018, quando il presidente Usa Donald Trump ha dato il via libera ai dazi sulle importazioni di acciaio con l’obiettivo di tutelare le aziende statunitensi. La conseguenza è che molti Paesi, a partire da Turchia e Cina, hanno cominciato a riversare parte della propria produzione a basso costo sul mercato europeo. Le fabbriche turche hanno quintuplicato la quantità di prodotti “piani” (quelli legati all’industria manifatturiera pesante) che esportano nell’Unione, passando dalle 107mila tonnellate al mese del 2016 alle oltre 500mila al mese del primo semestre del 2019. Molto meglio del Dragone, il quale però rimane saldamente in testa alla classifica dei maggiori produttori di acciaio al mondo.

A questa situazione poi si aggiungono altri fattori: l’aumento del prezzo delle materie prime, i costi crescenti delle quote di emissione di Co2 previste dal mercato europeo del carbonio e soprattutto la crisi dei settori dove c’è più richiesta di acciaio, dall’automotive all’edilizia, fino alla cantieristica e alla meccanica. Il risultato è che, secondo Eurofer, si è creata “una tempesta perfetta che potrebbe riportare l’industria siderurgica europea in un periodo di grave crisi”. Perlomeno in Europa, dal momento che nel resto del mondo non accenna a fermarsi. A fine 2018 la produzione globale è cresciuta del 4,6 per cento (1,8 miliardi di tonnellate di acciaio), grazie soprattutto al traino di Pechino (+9 per cento), dei Paesi del Medio Oriente (+8,5 per cento) e dal +6,2 per cento registrato dagli Stati Uniti. Nel Vecchio Continente, invece, c’è stato un leggero calo dello 0,3 per cento. Ma le stime per il 2019, visto l’andamento degli ultimi nove mesi, non promettono niente di buono.

La reazione dell’Ue ai dazi americani
Per cercare di mettere una pezza la Commissione europea è subito intervenuta con un “meccanismo di salvaguardia”, diventato poi strutturale dall’inizio di quest’anno. Rispetto alla tassa orizzontale del 25 per cento varata da Trump negli Stati Uniti, prevede che fino a una certa soglia – e per specifiche categorie di prodotti fatti in acciaio – i principali Paesi esportatori non paghino alcun dazio. Solo una volta superato quel limite, che l’Ue ha deciso di tarare in base alla media delle spedizioni avvenute tra il 2015 e il 2017, si applicano imposte del 25 per cento. E non è finita qui, perché il tetto massimo alle importazioni cresce a intervalli regolari del 5 per cento, al fine di non compromettere gli scambi internazionali. Un sistema che però è stato giudicato da più parti insufficiente. Così, dietro la spinta dei grandi gruppi industriali del settore, Bruxelles è corsa ai ripari introducendo ulteriori modifiche. E fra i provvedimenti adottati dal 1 ottobre c’è la riduzione del tasso annuo di aumento delle quote libere da tariffe (passato dal 5 al 3 per cento). “Gran parte del settore siderurgico è ancora in fase depressiva, ostacolato da una pressione sulle importazioni insostenibile. Pressione che non diminuirà, nonostante le modifiche apportate oggi”, è stato il commento del direttore generale di Eurofer Axel Eggert. Il timore è che per attraversare questa crisi le aziende europee alla fine taglieranno pesantemente il personale, tornato solo nel 2018 a quota 330mila dopo anni di contrazione.

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