Una spaccatura interna al clan Parisi aveva provocato 3 morti tra gli affiliati e una serie di intimidazioni in stile camorristico, vendette e agguati incrociati. È quanto ricostruito dalla Squadra Mobile di Bari, coordinata dalla procura distrettuale antimafia, in due anni di indagini sulle famiglie egemoni nel rione Japigia che ha portato all’arresto di 24 pregiudicati. Al centro dello scontro tra gli appartenenti al gruppo mafioso nel quartiere a sud del capoluogo pugliese il controllo del business della droga.

Stando agli accertamenti dei magistrati, Antonio Busco, tra gli arrestati nell’operazione, ritenuto ‘figlioccio’ del boss Savinuccio Parisi, aveva iniziato a rinnegare l’appartenenza alla famiglia Palermiti, alleata di Parisi, tentando una ascesa personale. Per “punirlo”, la sera del 17 gennaio 2017 fu ucciso un suo ‘pusher’, Francesco Barbieri.

La risposta di Busco arrivò il 6 marzo con l’assassinio di Giuseppe Gelao e il ferimento di Antonino Palermiti. Il 12 aprile fu poi ucciso, in reazione al delitto Gelao, il pregiudicato Nicola De Santis. Quella sera un proiettile forò la porta di un’aula del vicino liceo Salvemini, fortunatamente senza provocare vittime perché ormai vuota. Su questo episodio, precisa la procura guidata da Giuseppe Volpe, le indagini sono ancora in corso. Per i primi due omicidi, invece, i pm della Dda Ettore Cardinali, Fabio Buquicchio e Federico Perrone Capano, hanno ricostruito dinamiche e ritengono di aver individuato i sicari. Barbieri fu ucciso da Gelao, poi morto a sua volta sotto il colpi di Busco e dei suoi sodali Davide Monti, Giuseppe Signorile e De Santis.

Oltre agli agguati, le indagini hanno permesso di mettere insieme dinamica e movente di numerosi episodi di intimidazione diretti a cacciare Busco e la sua famiglia dal quartiere Japigia, con incendi di auto e abitazioni, oltre a incursioni di gruppi armati in stile camorristico con le ‘stese’. “Era la sorte – hanno spiegato gli inquirenti – di chi si metteva contro il clan”. Per intimorire la famiglia, i rivali hanno anche incendiato l’auto della vedova di Barbieri, colpevole di aver augurato sui social network ai responsabili dell’omicidio del marito la stessa fine.

Gli accertamenti della Polizia hanno consentito di ricostruire il contesto del quartiere, controllato da più di 300 vedette sui tetti e nelle abitazioni dei residenti, vicini o estranei al clan. Nei sequestri fatti nei due anni di indagini e ancora durante le perquisizioni nella esecuzione degli arresti, sono state ritrovate armi, droga e denaro contante, consentendo di ipotizzare un giro d’affari milionario, pari a circa 60mila euro di utile al giorno.

“Uno dei più grandi quartieri della città è stato controllato in senso mafioso al cento per cento anche attraverso le ‘stese’, che rappresentano una forma di sottocultura che passa attraverso una forma di arte cinematografica che ha poi gli effetti che vediamo. Nelle intercettazioni le ‘stese’ si commentano ad imitazione di quelle di Gomorra”, ha detto il procuratore aggiunto di Bari, Francesco Giannella. In una intercettazione uno degli indagati dice infatti, compiacendosi della riuscita delle ‘stese’, “qua mi sembra che non devono fare Gomorra, devono fare Japigia”.

Di “omertà assoluta” ha parlato il procuratore Volpe, riferendo il contenuto di un’altra intercettazione nella quale Domenico Milella, braccio destro del boss Palermiti, “si rammarica perché i compagni di scuola della figlia le avevano detto: ‘Busco vuole uccidere tuo padre’“. “Questa è la mafia – ha commentato Volpe – il fardello pesante che grava su quel quartiere, l’omertà assoluta pur in presenza di una consapevolezza” di quello che succede. “Non facciamo gli ipocriti, cominciamo a pensare che non è un mondo separato da quello delle cosiddette persone perbene ma si interseca con quello”, ha poi aggiunto Giannella ricordando che tra i clienti degli spacciatori c’erano molte persone “cosiddette perbene”.

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