La diffusione del fenomeno dello stalking è facilitata dalle più moderne tecnologie che si prestano ad agevolare le condotte persecutorie. Chi viene messo sotto pressione da irriducibili soggetti animati dai più diversi propositi non sempre considera la ragionevole ipotesi di essere involontariamente il primo alleato del proprio carnefice.

La soffocante azione dello stalker prende vita attraverso chiamate telefoniche e messaggi e si concretizza con l’inseguimento ossessionato in ogni angolo della città per ribadire la propria minacciosa presenza. Sovente – un po’ come Pollicino che nella fiaba prima lascia cadere molliche di pane e poi sassolini bianchi per farsi ritrovare – la vittima dissemina le proprie tracce sul web e permette al suo aguzzino di avere costante controllo della situazione e di conoscere i luoghi in cui rintracciare la persona nel mirino. Foto e selfie che finiscono nei social o vengono veicolate nelle chat di messaggistica istantanea rimbalzano anche verso destinazioni non gradite grazie alla cattiva diffusa abitudine di condividere, condividere, condividere.

Quel che appare sullo sfondo delle immagini permette la localizzazione di chi vi è rappresentato o di chi ha eseguito lo scatto. Non di rado l’attivazione del Gps sul proprio smartphone, e l’abbinamento non consapevole di tale funzione con altre applicazioni di frequente utilizzo, innesca l’etichettatura geografica di comportamenti e abitudini.

Il clic della fotografia equivale spesso alla “bollatura” che l’impiegato postale andava a eseguire sui francobolli di lettere e cartoline: località e data rimanevano impresse e permettevano di risalire a un “dove” e “quando” che risultava di interesse per i più curiosi. La foto – spesso non ci si pensa – ha una serie di “proprietà”, ovvero di caratteristiche che vengono “stampate” su un cartellino virtuale che pur invisibile è di facile lettura. Chi ha una minima confidenza con le diavolerie informatiche sa bene che la foto riporta i dettagli tecnici della macchina o del telefonino utilizzati (marca e modello), del tempo di scatto e dell’apertura del diaframma, e di mille altre cose. A queste si aggiungono le coordinate geografiche – rilevate automaticamente dal Gps – del luogo in cui la foto è stata scattata.

Qualche piccola precauzione può essere facile da mettere in pratica.

In primo luogo occorre “svegliare” il Gps solo quando c’è effettiva necessità che questo entri in funzione per dare supporto – ad esempio – al navigatore che diversamente sarebbe impossibilitato a guidarci per raggiungere una destinazione di cui non conosciamo l’itinerario. Il consiglio numero due è quello di evitare – sui social – che i nostri post, tweet et similia rechino l’indicazione della località in cui si è proceduto a pubblicare qualcosa. Su quelle piattaforme di aggregazione è poi preferibile ridurre l’esuberanza che porterebbe a pubblicare qualunque cosa, agevolando la caccia all’uomo o – quasi sempre – alla donna da parte del molestatore. Le applicazioni che monitorano le nostre corse e camminate in giro sono speso le prime a rendere noto – su Facebook o altrove – l’itinerario della passeggiata quotidiana, con orari e durata dell’esercizio fisico… Staccare tutto è meglio.

Un episodio recente può aiutare a comprendere dove possa arrivare la nefasta determinazione di uno stalker, superando la più fervida immaginazione e persino le più ardite sceneggiature dei film “de paura”.

E’ lo scorso primo settembre. Siamo in Giappone. Una 21enne viene aggredita dinanzi a casa sua a Tokyo. L’indirizzo dell’abitazione era assolutamente riservato, perché la giovane donna aveva adoperato ogni cautela per blindare la propria privacy. Ma un selfie, un solo selfie, è stato fatale. La pubblicazione di quella immagine (pur precauzionalmente priva di “tag” di qualunque natura) ha fatto il resto.

Il suo nome è Ena Matsuoka, personaggio musicale idolatrato dai giovanissimi e leader del gruppo pop Tenshitsukinukeniyomi. L’assalitore è un suo fan sfegatato. L’uomo, Hibiki Sato, 26 anni, l’ha localizzata proprio grazie a quell’immagine sorridente, un primo piano apparentemente innocuo per la riservatezza della showgirl.

Il tizio ha scaricato la foto sul proprio computer e si è messo ad esaminare ogni minuzia di quello scatto ad alta risoluzione. Dannati telefonini e ancor più dannati troppi megapixel dell’immagine. Sato ha notato che nelle pupille della ragazza era riflessa la scena in cui si trovava al momento della foto in autoscatto. Ha visto che la donna era nell’immediata prossimità di una fermata dello scuolabus. Sato, adoperando Google Maps, è riuscito a capire quale fosse quella fermata. E ci si è appostato per qualche giorno fino alla mattina in cui ha visto passare Ena Matsuoka.

L’ha seguita per nemmeno un centinaio di metri e, quando lei è entrata nelle scale in cui abitava, l’ha raggiunta mentre stava aprendo la porta di casa. L’ha afferrata da dietro e le ha impedito di urlare mettendole un pezzo di stoffa in bocca. Scappato dopo una breve colluttazione in cui Ena ha riportato ferite al volto, Hibiki Sato è stato arrestato due settimane dopo.

Dopo aver premesso agli investigatori la sua passione ossessiva per la giovane, è stato proprio lui a spiegare come fosse riuscito a scovarla in una megalopoli come Tokyo. Si fosse trattato di un film, chiunque di noi avrebbe detto “che esagerazione!”, ma la realtà, purtroppo, supera la fantasia.

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