Proteste piccole e diffuse in numerose città egiziane con un unico scopo: chiedere le dimissioni del presidente Abdel Fattah Al Sisi. Piccoli numeri che però suscitano stupore perché in Egitto anche un ridotto assembramento di manifestanti contro l’attuale presidente sarebbe stato impensabile sino a venerdì, quando dal Cairo a Mansoura, centinaia di persone si sono radunate per chiedere le sue dimissioni.

“È stato impressionante vedere centinaia di persone che ieri hanno urlato il loro dissenso contro Al Sisi e strappato i suoi poster”, dice Hossam el-Hamalawy, attivista dei Socialisti Rivoluzionari egiziani che ora, come molti dissidenti, ha lasciato il paese e vive a Berlino. “È troppo presto per dire se questo sia l’inizio di una rivolta e credo ci sia ancora molta strada da fare. Ma quello che è successo può essere paragonato a un sasso che cade sull’acqua stagnante e non dobbiamo avere delle aspettative troppo alte”.

La dura repressione che il nuovo regime militare perpetra dal 2013, quando Al Sisi ha preso il potere con un colpo di stato, ha reso impossibile in questi anni qualsiasi tipo di dissenso: 60mila detenuti politici, sparizioni forzate all’ordine del giorno, migliaia di condannati a morte e torture nelle carceri sempre più violente tanto da aver portato i detenuti a protestare con degli scioperi della fame a oltranza. La maggior parte degli oppositori politici è in esilio o reclusa in condizioni durissime, come ha dimostrato la morte plateale dell’ex presidente islamista Mohammed Morsi, colpito da un malore in tribunale dopo anni di cure negate durante la sua detenzione. Le restrizioni alla libertà personale sono dunque ben peggiori di quelle del 2011, l’anno in cui gli egiziani scesero in piazza durante la rivoluzione che destituì Hosni Mubarak.

Per questo la protesta, anche se ancora esigua, fa notizia. È nato tutto da un hashtag sui social, anche questo ampliamento controllato con leggi draconiane dal regime, che da poco più di una settimana circolava in rete. Diceva #kifayaSisi, basta Sisi, ne abbiamo abbastanza. A lanciarlo è stato Mohamed Ali, imprenditore e attore. A inizio settembre Ali ha iniziato a pubblicare su Facebook dalla Spagna – paese in cui Ali ha deciso di fuggire in una sorta di auto-esilio – una serie di video in cui denunciava la corruzione di Al Sisi e del regime militare da cui proviene. Nel suo ultimo post, Ali ha invitato gli egiziani a scendere in piazza mentre in altri post precedenti ha chiesto al ministro della difesa Mohammed Zaki di arrestare Al Sisi e di appoggiare la protesta.

La voce di Ali è suonata autorevole perché l’imprenditore con la sua impresa ha collaborato a diversi progetti portati avanti dalle aziende dell’esercito. L’economia egiziana è, infatti, ampiamente controllata da società in mano al circolo del Consiglio Militare Supremo. Diverse stime quantificano che tra il 20 e il 50% delle attività sia riconducibile ai militari, ma negli ultimi anni il loro potere su questo fronte è cresciuto ancora di più, arrivando a toccare quasi tutti i settori strategici: dalla costruzione di grandi opere alle infrastrutture per le ricche risorse di gas e petrolifere del paese. I nomi di diverse compagnie sono noti ma resta invece il completo riserbo sul reale giro d’affari in mano al Consiglio Militare.

Le faraoniche opere di Al Sisi, come la costruzione della nuova capitale amministrativa, progetto da 58 miliardi di dollari iniziato nel 2015, sono uno strumento di propaganda che però al momento non è in grado di sanare le disastrose condizioni economiche del paese. Per rispettare i piani di rientro del prestito di 12 miliardi di dollari concesso dal Fondo monetario internazionale, l’Egitto ha dovuto ridurre da tempo i sussidi sui servizi e i generi di prima necessità e svalutare la sterlina, la moneta ufficiale. Il risultato è stato un innalzamento del costo della vita in un paese dove più di un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà.

Le condizioni in cui versano i cittadini egiziani, dunque, sono ancora più pesanti di quelle che provocarono la rivolta del 2011. “Ogni rivoluzione contro il regime, ogni cambiamento politico, sarà sempre il risultato un accumulo di rabbia sociale o di dissenso”, spiega el-Hamalawy. “Le proteste di ieri rappresentano indubbiamente un punto di rottura ma c’è bisogno di altro. Tutte le organizzazioni politiche, i movimenti giovanili e i sindacati indipendenti sono stati distrutti e per ripristinare questo tessuto di opposizione ci vorrà tempo. Proprio dalle caratteristiche e dai tempi di questa ricostruzione, del resto, dipenderà il successo delle nuove proteste”. Intanto, le autorità hanno reagito disperdendo alcuni assembramenti con i gas lacrimogeni e arrestando centinaia di attivisti. Secondo l’Egyptian Center for Economic and Social Rights le persone arrestate in tutto il paese sono 166. Il presidente Al Sisi, secondo quanto riportato dal portale di informazione Mada Masr, starebbe pensando di modificare il calendario del suo viaggio a New York dove è atteso per la 74esima Assemblea generale dell’Onu.

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