È guerra tra il Tar del Lazio e la Cassazione sul caso del “panino da casa”. Nei giorni scorsi la sezione terza Bis del tribunale amministrativo regionale del Lazio, presieduta da Giuseppe Sapone, ha emesso un’ordinanza che sospende il regolamento della scuola primaria di Albano Laziale che non permette alle famiglie di far portare ai bambini il pasto “al sacco”.

Una decisione che ha un “peso” notevole, soprattutto vista la sentenza opposta, emessa nel luglio scorso dalla Cassazione. In quell’occasione le Sezioni Unite della Cassazione, dando ragione al Comune di Torino e al Ministero dell’Istruzione sulla libertà delle scuole di organizzare il servizio mensa, aveva chiarito che “l’istituzione scolastica non è un luogo dove si esercitano liberamente i diritti individuali degli alunni né il rapporto con l’utenza è connotato in termini meramente negoziali, ma piuttosto è un luogo dove lo sviluppo della personalità dei singoli alunni e la valorizzazione delle diversità individuali devono realizzarsi nei limiti di compatibilità con gli interessi degli altri alunni e della comunità”, con “regole di comportamento” e “doveri cui gli alunni sono tenuti”, con “reciproco rispetto, condivisione e tolleranza”.

Una sentenza ben differente da quella già emessa in precedenza dal Consiglio di Stato che aveva rimandato al Miur ogni osservazione. A supporto della propria tesi i legali del ministero avevano sostenuto che “i genitori che non vogliono avvalersi del servizio di mensa possono scegliere una formula diversa dal ‘tempo pieno’ o prelevare il figlio da scuola all’ora di pranzo, fargli consumare il pasto altrove e riaccompagnarlo per la ripresa pomeridiana delle lezioni”. Un’interpretazione che secondo il tribunale “non ha un solido fondamento normativo ed entra in conflitto con gli articoli 3 e 34 della Costituzione. La refezione deve restare un’agevolazione alle famiglie, facoltativa a domanda individuale, senza potersi larvatamente imporre come condicio sine qua non per la scelta del tempo pieno. L’unica alternativa, ragionevolmente praticabile, rispettosa dell’articolo 34 della Costituzione, consiste nel consentire agli alunni del tempo pieno che non aderiscono al servizio di refezione di consumare a scuola un pasto domestico”.

Ora per la prima volta dopo la sentenza avversa della Cassazione è il Tar a dar ragione alle famiglie, richiamando proprio quella sentenza del Consiglio di Stato, la 5156/2018. Il giudice Sapone “condanna la scuola ad adottare, senza ritardo, tutte le misure e gli accorgimenti di Legge atti a disciplinare la coesistenza nel medesimo refettorio, di pasti di preparazione domestica e di pasti forniti dalla ditta comunale di ristorazione collettiva”. Una vittoria per l’avvocato Giorgio Vecchione che ancora una volta difendeva la famiglia della minore esclusa dalla scuola: “Siamo di fronte ad un contrasto tra la giurisdizione civile e quella amministrativa. La Cassazione a luglio ha emesso una sentenza sulla base di un panorama del mondo della scuola che non rappresenta la realtà: si è lanciata in principi di eguaglianza e non discriminazione quando i discriminati sono quelli che sono costretti ad uscire da scuola. Ha operato una distinzione tra gli studenti che non appartengono alla stessa categoria e quindi possono essere discriminati a seconda se usufruiscono o meno di un servizio facoltativo a domanda individuale. A noi non interessa avere un servizio gratuito ma non vogliamo il servizio. Vogliamo usufruire dei contenuti tipici del tempo mensa. Il Consiglio di Stato ci ricorda che il tempo mensa è legato alla libertà individuale che la Cassazione dice che non si può esercitare. L’ordinanza del Tar per la prima volta ribalta la questione: stiamo parlando del Tar del Lazio che ha una notevole importanza e a giudicare era una sezione che conosce molto bene il mondo della scuola. Quella della Cassazione ora è una sentenza destinata a restare sola ed isolata”.

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