Ha attraversato due oceani a remi, ha percorso 33 mila chilometri in solitaria, ed ora si appresta a salpare verso una nuova avventura, in direzione del Great Pacific Garbage Patch, la grande isola di plastica al centro del Pacifico. Da San Francisco, dove si trova da settimane per gli ultimi preparativi prima della partenza ormai imminente, l’esploratore Alex Bellini lancia il suo messaggio per fermare la marea di plastica che sta soffocando i nostri mari: 8 milioni di tonnellate l’anno, un quantitativo impressionante che si riversa negli oceani trasportato dai grandi fiumi in tutti i continenti. “La natura ci sta chiedendo aiuto. Molti lo sanno, ma pochi stanno facendo qualcosa per salvarla. Serve una presa di coscienza collettiva: siamo tutti nella stessa barca, non esiste un pianeta B”.

We’re all in the same boat è anche lo slogan che accompagna il progetto “Ten Rivers One Ocean“, un lungo viaggio attraverso i dieci fiumi più inquinati della terra, da dove proviene l’80% della plastica che si riversa fino al mare dando vita ad enormi accumuli di materiali inerti. Il più grande di questi, al largo delle coste della California, si estende per oltre 1,6 milioni di km2, poco più di tre volte l’area della Spagna, leggermente più grande dell’Alaska. E’ verso questo enorme accumulo di detriti che Alex Bellini ha scelto di dirigersi e non a caso: la grande isola di plastica è il simbolo di un’emergenza globale di cui è urgente prendere atto per invertire la rotta, prima che sia troppo tardi. “Dobbiamo capire da dove ripartire nel nostro rapporto con la natura, e l’unico modo per farlo è spalancare gli occhi su quel che sta succedendo. Solo conoscendo ciò che abbiamo attorno potremo prendercene cura”.

Come nasce il Progetto 10 Rivers One Ocean?

“Tutto parte da un bambolotto, incontrato durante l’ultima navigazione a remi nell’Oceano Pacifico. Mi sono chiesto da dove venisse, quale vita avesse vissuto prima di arrivare fin là, prima di archiviarlo nella mia memoria. Due anni fa, nel 2017, quel ricordo è tornato a galla, in seguito ad una conversazione con un gruppo di amici giornalisti: mi sfidavano a raccontare il mondo che cambia, a partire dall’emergenza ambientale. Chi meglio di un esploratore può farlo? Così è nato Ten rivers One ocean. Ciò che intendo fare con questo progetto è accrescere la consapevolezza generale su un argomento che ci riguarda tutti da vicino e di cui siamo testimoni ogni giorno: l’inquinamento da plastica dalle sue origini ai suoi effetti finali. E in questa relazione l’attore principale è solo uno, l’uomo“.

Dopo il Gange, fra i fiumi più inquinati al mondo, ora ti appresti a navigare verso il Great Pacific Garbage Patch. Di cosa si tratta esattamente, e quali sono le caratteristiche di questo viaggio?

“Il Great Pacific Garbage Patch è un enorme accumulo di plastica che si è venuto a formare nel corso degli ultimi 60-70 anni, di pari passo con l’affermazione del modello produttivo che oggi conosciamo. Viene chiamato anche Pacific Trash Vortex, perché si comporta proprio come un vortice che si muove in senso orario e con la sua forza centripeta accumula al centro tonnellate di plastica. Qualcuno ha parlato di “sesto continente, altri ne hanno persino rivendicato la cittadinanza. A differenza di quanto le persone immaginano però, il GpGp non è qualcosa di solido su cui si può andare a piantare le tende. In realtà non è un’isola, ma una zuppa di plastica, di cui ciò che affiora è solo una parte del totale: il resto rimane sotto il pelo dell’acqua o va a fondo. Attualmente, si stima che la massa totale del GPGP sia attorno alle 100.000 tonnellate, pari a 500 Boeing 747.

Recenti spedizioni hanno evidenziato che la stragrande maggioranza delle materie plastiche presenti sul GPGP è composta da oggetti in polietilene (PE) o polipropilene (PP), o da reti da pesca abbandonate. Quando si considera la massa totale, le stime suggeriscono che il 92% della massa complessiva del GPGP sia costituito da oggetti più grandi di 0,5 cm, di cui tre quarti composto da plastica di dimensioni superiori a 50 cm di grandezza. Tuttavia, in termini di numero di oggetti, le stime indicano che il 94% del totale è rappresentato da micro-plastiche. Sono proprio quest’ultime, le micro-plastiche, a creare il problema più grave per l’ecosistema perché a causa delle loro dimensioni e colore, gli animali confondono la plastica per cibo e ciò causa loro malnutrizione e la loro morte. Senza contare che attraverso la catena alimentare queste micro-particelle ritornano anche a noi”.

Se il mare sta morendo nell’indifferenza dell’uomo, è ancora possibile invertire la rotta?

“Credo che le persone si stiano gradualmente rendendo conto del problema, ma è talmente distante da noi che conduciamo le nostre vite a terra da poter essere facilmente rimosso, anche perché le priorità nell’infotainment di massa sembrano essere sempre altre. Di fatto invece la salute del nostro pianeta dovrebbe essere il tema più importante di tutti perché è la mera condizione per la nostra stessa sopravvivenza. Un atteggiamento che ha molto a che fare con lo status quo: siamo talmente indisponibili a cambiare e a cedere ciò che abbiamo guadagnato in termini di evoluzione, opportunità e ricchezza che mettere tutto in discussione per il bene del pianeta non ci sembra una negoziazione equa, anche perché ci aspettiamo sempre che siano gli altri a fare il primo passo.

Per questo mi rivolgo innanzitutto alle persone, cercando di stimolare atteggiamenti consapevoli. La consapevolezza porta a scelte più sagge, a partire dai nostri acquisti al supermercato, potendo scegliere prodotti sfusi o in vetro piuttosto che confezionati. Oppure orientandoci sui tipi di plastica maggiormente riciclabili, quelle compostabili ad esempio. Questo però non ci deve distogliere dal problema principale che è l’attuale modello consumistico. Oltre al riciclo, oltre all’economia circolare, per un vero cambiamento serve consumare di meno”.

Combattere la cultura del superfluo. Non si tratta di un’utopia?

“In realtà dobbiamo semplicemente renderci conto che ai ritmi con cui produciamo, consumiamo e gettiamo i prodotti neanche un miracolo potrà salvarci dalla crisi ambientale a cui stiamo andando incontro. Certo, questo genererà anche un grande cambiamento dal punto di vista degli equilibri economici. Bisognerà anche fare attenzione a non legittimare sotto l’insegna della ‘sostenibilità’ una forma più insidiosa di consumismo. Quel che occorre è una nuova alleanza globale a livello di istituzioni e da parte dell’economia in grado di favorire la nascita di un nuovo modello produttivo e su un consumo più consapevole”.

Che riscontri hai avuto sinora dalle persone?

“A fine luglio ho lanciato una sfida ai miei followers, sull’impronta di una campagna già nota che si chiama Plastic Free July: fare totalmente a meno della plastica per un mese. Il riscontro è stato molto positivo, anche se quelli che sono riusciti a portare a termine la sfida sono una minima parte di quanti hanno partecipato: d’altra parte c’era d’aspettarselo perché le nostre vite sono profondamente pervase dalla presenza della plastica soprattutto nelle grandi città dove i ritmi frenetici e i modelli di vita ne favoriscono l’uso in ogni modo”.

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