San Pietroburgo, patria di Putin. Sabato 20 luglio. La città delle Notti Bianche brulica di turisti. E’ il sabato più vicino al solstizio d’estate. E’ tardi, ma la città non dorme, perché la notte non è ancora calata. In centro si sta svolgendo il festival dedicato ai palazzi di San Pietroburgo. E’ iniziato il festival internazionale di musica “Notti Bianche”. Ci sono state anche manifestazioni di protesta contro l’esclusione dalle liste elettorali di quasi tutti i candidati delle opposizioni, beffati da una legge che di fatto è stata architettata per eliminare ogni forma di dissenso delle minoranze.

Anche la 41enne Yelena Grigorieva, grandi occhiali che nascondono uno sguardo combattivo e risoluto, ha partecipato ad una di queste manifestazioni. E’ una nota attivista, sempre in prima fila quando si tratta di battersi contro la tortura, le detenzioni politiche, l’annessione della Crimea o la persecuzione delle comunità Lgbt. Più volte è stata aggredita, minacciata di morte. Più volte Lena, come la chiamano gli amici, è andata con il suo avvocato a presentare denunce alla polizia. Ogni volta senza alcun risultato. Quando il primo luglio il suo nome è comparso in una lista di persone cui dare “la caccia”, diffuso da un sito omofobo che si ispira alla saga horror Saw, lei è di nuovo tornata al comando di polizia. Il sito è stato oscurato. Ma solo dopo due settimane. Troppe.

Infatti, quella bella sera del 20 luglio, qualcuno aspetta sotto casa Lena, dalla parte dei giardinetti che si trovano di fronte al condominio dove abita. La circondano, la pigliano a calci e pugni. Poi, l’accoltellano. Otto volte. Alla schiena, come i vili fanno. Al volto, per sfregio. L’autopsia scoprirà più tardi che è stata anche strangolata. Una mattanza. Gli assassini trascinano il corpo di Lena tra i cespugli. Il cadavere verrà ritrovato 12 ore dopo. Un presunto killer sarebbe stato arrestato, rivelerà qualche giorno dopo il sito pietroburghese Fontanka. La polizia è avara di notizie. Per esempio, i compagni di Lena temono che succederà come al solito: l’omicidio non verrà perseguito come crimine d’odio.

Come dimostra uno studio del Cisr (Centro per la ricerca sociale indipendente) dello scorso anno, dal 2011 al 2017 la comunità russa Lgbt è stata oggetto di 267 crimini violenti, soprattutto dopo il 25 gennaio 2013 – l’approvazione della legge alla Duma (la camera bassa del parlamento russo) che condanna la “propaganda dell’omosessualità presso i minori”, con 388 voti favorevoli, uno contrario, un’astensione e 60 assenti. Il 25 maggio sono stati adottati degli emendamenti. Uno in particolare precisa cosa si debba intendere per “propaganda”: “Attività orientata verso la diffusione non controllata di informazioni capaci di avere un’influenza negativa sulla salute, lo sviluppo morale e spirituale e in particolare di formare una rappresentazione deformata del valore sociale legato agli orientamenti sessuali tradizionali e non tradizionali, presso persone che non hanno, a causa della loro età, la possibilità di valutare in modo autonomo e critico una tale informazione”. Risultato: solo 2 dei 267 crimini violenti (compresi molti omicidi) sono stati trattati come crimini d’odio. Gli altri sono stati derubricati come crimini ordinari e quindi soggetti a pene più lievi.

Che la Russia della democratura (quella che il nostro ducetto del rosarietto porta ad esempio, al punto da voler trasformare l’Italietta a sua immagine e somiglianza) sia un posto dove l’illibertà regni, dove l’omofobia sia regola e la comunità Lgbt sia perseguitata, è notorio. Ricordo personalmente – quando ero corrispondente a Mosca – un’intervista di Putin a proposito di Yurij Luzkhov, ineffabile sindaco di Mosca che aveva definito i gay pride “riti satanici”. Era il 2007. Putin non condannò la grottesca affermazione di Luzkhov: “Il mio atteggiamento faccia a faccia dei gay pride e delle minoranze sessuali è molto semplice (…) e si riassume nel fatto che uno dei più gravi problemi del Paese è la demografia”. In sostanza, la posizione del leader del Cremlino è la stessa dei gruppi più oltranzisti di destra (da noi, quella del ministro leghista Lorenzo Fontana, ultraconservatore e fermamente cattolico, paladino della famiglia tradizionale e viscerale nemico della comunità Lgbt, delle coppie di fatto e delle unioni civili).

E’ ciò che si chiama “panico demografico”. Associare cioè l’omosessualità alla sterilità, e per questo considerarla responsabile del calo demografico che affligge la Russia. Posizione peraltro rilanciata di recente da una fedelissima di Putin, la presidente del Senato Valentina Matvienko, ex ambasciatrice a Malta (1991-1995) e in Grecia (1995-1998), ex ministra e soprattutto governatrice di San Pietroburgo, il feudo dei cosiddetti piters, ossia di grandissima parte degli uomini del potere – e degli uomini “della forza”, ossia i siloviki – che comandano al Cremlino. Ebbene, la Matvienko ha dichiarato, durante un recentissimo Forum sulla gioventù sponsorizzato dal governo, che le adozioni gay “porteranno all’estinzione dell’umanità”. Mentre, secondo lei, la soluzione per evitarla sarebbe attenersi alla tradizione: “in cui si trovano gli ingredienti base per la felicità: la famiglia, i bambini, i genitori. Purtroppo noi notiamo come queste istituzioni vengano corrose”.

E’ contro questi pregiudizi e falsità che si batteva Lena Grigorieva. Contro leggi liberticide come quella vigente a Mosca dal 2012 che ha vietato i cortei pride per i prossimi cent’anni. O quella, concepita a Mosca, che regolamenta il comportamento in pubblico dei gay. Tanto che nel 2016 l’Amnesty russa ha lanciato un appello per abolire queste norme raccogliendo 16mila firme, moltissimo se si considerano gli impedimenti e gli ostacoli disposti dalle autorità in simili circostanze. Senza dimenticare che alla periferia dell’impero, come in Cecenia, è stato avviato un progetto di repressione degli omosessuali che ne prevede l’arresto e la tortura per estorcere i nomi di altri omosessuali, secondo un’inchiesta del bisettimanale Novaja Gazeta, dove lavorava Anna Politkovskaja, trucidata nell’androne di casa il 7 ottobre 2006, il giorno del compleanno di Putin.

L’attitudine delle autorità russe nei confronti dell’omosessualità – fu Pietro I a vietare nel 1716 la sodomia – ha spesso sollevato feroci polemiche in Occidente negli ultimi anni. Al punto che Putin ha chiesto alle forze dell’ordine di essere meno repressive durante i Giochi Invernali di Sochi (2014) e durante il campionato mondiale di calcio dello scorso anno. Un espediente che suscitò indignazione tra i militanti della comunità Lgbt russa. Perché finita la festa, tutto sarebbe ritornato come prima, e forse peggio.

Lena Grigorieva lottava contro le derive d’odio che erano alimentate, secondo lei, “dall’arretratezza del paese sul fronte dei diritti e della società civile”. L’odio, la violenza e i raid punitivi hanno generato paura, tale da costringere la quasi totalità della comunità gay (circa cinque milioni di persone) a vivere in segreto, col timore d’essere scoperti. Un paese dove la “caccia al gay” non è prevenuta, perché la polizia non vuole vedere e quindi non interviene. Del resto, secondo uno studio diffuso dal sito Kombini, l’83% dei russi considera l’omosessualità “condannabile”. Un clima che si espande anche nel mondo virtuale. Per esempio, condividere articoli sulla comunità Lgbt su Facebook è reato e si finisce in galera.

E pensare che all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, la Russia di Lenin fu il primo stato nel mondo a depenalizzare le relazioni fra uomini, anche se in modo ipocrita, trattando la questione sul fronte medico piuttosto che su quello politico. Le autorità sovietiche avevano aperto una strada che sarebbe stata imboccata in Occidente parecchi decenni dopo, ma poi le cose cambiarono sotto Stalin: nel 1934 si ritornò a recriminalizzare l’omosessualità maschile, in un momento in cui la “questione sessuale” era fortemente rimessa in questione (l’aborto e le malattie veneree sono marcate dalla criminalizzazione). Gli omosessuali finirono nei gulag, anche dopo la destalinizzazione (si beccavano cinque anni di deportazione), mentre le lesbiche venivano mandate in ospedali psichiatrici. Insomma, la diversità sessuale era equiparata al dissenso politico. La cosiddetta presunta modernizzazione sessuale sovietica ebbe metodi polizieschi niente affatto liberali. Solo dopo la caduta dell’Urss, il 27 maggio del 1993, l’omosessualità maschile fu depenalizzata. Ma per ragioni assai poco nobili: era una delle condizioni perché la Russia di Eltsin fosse ammessa al Consiglio d’Europa.

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