La carenza cronica di farmaci salvavita mette a dura prova i nostri ospedali. Se finiscono anche le scorte si devono comprare le confezioni all’estero a prezzi più alti di quelli negoziati in Italia. E intanto i pazienti aspettano con il rischio di aggravarsi. Antitumorali, antibiotici, antipsicotici, vaccini, capsule per l’endometriosi, terapie contro polmonite, osteoporosi, Parkinson, dolori neuropatici. Nell’elenco dei medicinali irreperibili di Aifa (l’Agenzia italiana del farmaco) ci sono più di 200 nomi. Ma l’indisponibilità di certi farmaci non riguarda soltanto noi. “Tantissimi Paesi riportano questo problema, da nord a sud da est a ovest. Non solo l’Italia, ma anche Spagna, Portogallo, Francia, Olanda, Norvegia, Austria, Slovenia”, dice il direttore di Aifa Luca Li Bassi. “Tutti – aggiunge – riconoscono che sta aumentando in modo esponenziale e in tutti i paesi e non abbiamo la percezione giusta delle ragioni che portano a questa dinamica”.

Il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi spiega che “neanche il 10 percento è causato da difetti produttivi, legati alla scarsità delle materie prime o all’inefficienza dei macchinari”. L’emorragia si verifica lungo la catena distributiva: grossisti e distributori comprano i farmaci dove costano meno, cioè qui, e li rivendono dove costano di più, come in Germania. Un mercato parallelo che sfugge ai controlli da parte delle autorità competenti. Per questo motivo la proposta di Aifa è quella “di creare un database a livello europeo per studiare i flussi internazionali dei farmaci”, comunica il direttore Li Bassi, rimarcando però “che il mercato parallelo non è l’unica causa, altrimenti saremmo solo noi ad avere il problema” e invece anche “in Svizzera, dove costano tanto e ci sono le sedi di molte multinazionali, ne mancano oltre 500. Ci sono dinamiche che dobbiamo comprendere prima di fornire soluzioni di lungo periodo e per tutto il mercato” conclude Li Bassi.

Intanto il 2 luglio c’è stata la prima riunione del tavolo tecnico istituito dal ministero della Salute per gestire l’emergenza delle carenze. L’obiettivo è mettere al primo posto la salute pubblica e porre un freno alla logica del libero scambio quando si tratta di beni essenziali come i farmaci. Spesso rastrellati dagli scaffali di ospedali e farmacie anche attraverso furti da milioni di euro. Una soluzione tampone, discussa al tavolo, è quella contenuta nel decreto Calabria, che prevede la facoltà per Aifa di emanare provvedimenti di blocco temporaneo delle esportazioni. Come è già successo per il Sinemet, il farmaco anti-Parkinson, scomparso per dei mesi. Un altro suggerimento arriva dal presidente di Farmindustria: “L’industria potrebbe importare direttamente i medicinali mancanti dalle sue filiali all’estero allo stesso prezzo pattuito in Italia”. Intanto ci si arrangia come si può. La società italiana dei farmacisti ospedalieri (Sifo) qualche giorno fa ha lanciato la piattaforma online “Drughost” per mappare e quantificare i farmaci indisponibili, utile anche “per ‘convalidare’ e ‘valutare’ i fornitori nelle procedure di gara” si legge in un comunicato.

La situazione è paradossale anche per un altro motivo. L’Italia infatti è leader (“quest’anno a pari merito con la Germania ma ancora per poco”, assicura Scaccabarozzi) in Europa nella produzione farmaceutica. I numeri del 2018 sono stati presentati oggi nel corso dell’Assemblea pubblica di Farmindustria. Con un fatturato di 32 miliardi di euro (il 3,2 per cento in più rispetto all’anno precedente), tre miliardi di investimenti (1,7 in ricerca e 1,3 in impianti produttivi ad alta tecnologia) e 66.500 addetti si conferma tra i settori manifatturieri più importanti del nostro Paese. Con un export, che oggi vale 26 miliardi, che negli ultimi dieci anni è aumentato del 117 percento, cioè più della media europea (81 percento).

In Italia, calcola Farmindustria, la spesa farmaceutica pubblica annua (al netto dei payback e della quota di ripiano), di 290 euro procapite, pari a 80 centesimi al giorno, è più bassa, di oltre il 25 percento, rispetto alla media dei grandi Paesi europei. Grazie a una migliore capacità di contrattazione dei prezzi e meccanismi di rimborso virtuosi. Il payback innanzitutto, per effetto del quale le aziende ripianano l’eccedenza della spesa farmaceutica se viene superato il tetto stabilito per legge, e che ha permesso alle Regioni di incassare 2,4 miliardi di euro per gli anni 2013-2017. Anche se l’ultima tranche da 800 milioni il Mef deve ancora stornarla. “Portiamoci a casa al più presto quei soldi già contabilizzati nei bilanci regionali e che non appartengono allo Stato” reclama Sergio Venturi, coordinatore della commissione Salute delle Regioni, anche lui intervenuto alla tavola rotonda di Farmindustria.

Un altro sistema virtuoso sono i Managed entry agreements (Mea), accordi di rimborso condizionato per farmaci innovativi ad alto costo, che vengono pagati fondamentalmente in base ai risultati dimostrati. “Il 35 per cento di questi contratti nel mondo sono italiani – afferma Scaccabarozzi -. Germania, Francia e Spagna non arrivano al cinque percento”.  L’investimento in farmaci innovativi può far diminuire i costi di trattamento. Come nel caso dell’Epatite C. “Oggi, per queste persone, non abbiamo più bisogno di trapianti di fegato, il che significa anche una riduzione dei costi di ospedalizzazione”: un risultato impensabile per Venturi ripensando agli altissimi costi iniziali delle terapie. “Se vediamo dove siamo partiti e dove siamo arrivati rispetto alla contrattazione del prezzo, ci rendiamo conto che la sostenibilità di farmaci innovativi è possibile. E, tenendo il faro dell’universalità davanti, troveremo le risorse anche per garantire l’accesso ad altre nuove terapie in arrivo”. La centralizzazione delle procedure di acquisto dei farmaci ha permesso di abbattere i prezzi e di fare entrare negli ospedali i generici. “Tuttavia – fa presente Venturi – in molte realtà del Sud si preferisce ancora il farmaco griffato e qui ci sono ancora margini di miglioramento”.

Le aziende di generici iniziano a dare segnali di insofferenza verso le gare al massimo ribasso. Secondo il primo rapporto Nomisma su questo comparto (che conta 50 imprese in Italia e oltre un miliardo di fatturato), i costi non sono compensati dai ricavi: tra il 2010 e il 2016 i secondi sono cresciuti del 67 per cento e i primi del 69. Un gap non colmato a causa in particolare dell’aumento dei costi delle materie prime (più 4,2 per cento) e del personale (più 7,6). Di conseguenza, anche se l’incidenza in volume dei generici sulla farmaceutica ospedaliera è cresciuta, sta diminuendo il tasso di partecipazione delle imprese alle gare (inteso come rapporto tra numero di offerte complessivamente presentate nell’anno e il numero di lotti banditi nello stesso anno): dal 3,2 del 2011 all’1,5 del 2018. “Perché chiaramente non possono lavorare in perdita – commenta il presidente di Assogenerici Enrique Häusermann -. Il settore è ancora sano ma il margine di guadagno si sta assottigliando”. Nomisma ha rilevato che a distanza di dieci anni dalla scadenza del brevetto il tasso di partecipazione è quasi zero. “Il rischio – avverte Häusermann – è che scompaiano dal mercato alcuni farmaci che né l’impresa di generici né il brand ha più interesse a produrre per scarsa reddittività”. Un destino che ha già riguardato un antitumorale (il fluorouracile), ci fa sapere Assogenerici, e che presto toccherà anche alla combinazione Piperacillina/Tazobactam (genericata da anni) indicata per curare la polmonite e altre infezioni.

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