C’era un codice di comportamento sommerso attraverso il quale gli esiti dei concorsi venivano ‘cuciti’ addosso a chi doveva vincerli. Nessuno spazio per il merito, tanto che gli altri candidati erano “da schiacciare” e chi osava fare ricorso se la doveva “piangere”. Un mondo dell’università ribaltato, quello che la procura di Catania è certa di aver scoperto al termine di un’inchiesta condotta dalla Digos etnea sfociata nella sospensione da parte del gip del Tribunale di Catania del rettore dell’università Francesco Basile, di altri 9 professori ai vertici dei dipartimenti dell’ateneo. Le accuse per tutti sono di associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta.

Nel fascicolo – nato da una querelle amministrativa – sono iscritti complessivamente 66 indagati: 40 professori dell’università di Catania e 20 degli atenei di Bologna, Cagliari, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona. Indagate anche altre sei persone a vario titolo collegate con l’università di Catania. In tutto sarebbero stati truccati 27 bandi, ma proseguono gli accertamenti su altre 97 procedure concorsuali.

A capo della presunta associazione a delinquere ci sarebbe stato il rettore dell’università di Catania, Francesco Basile, e di cui sarebbe stato promotore il suo predecessore, Giacomo Pignataro. La finalità era alterare il naturale esito dei bandi di concorso per il conferimento degli assegni, delle borse e dei dottorati di ricerca, per l’assunzione del personale tecnico-amministrativo, per la composizione degli organi statutari dell’Ateneo, per l’assunzione e la progressione di carriera dei docenti. 

“Vediamo chi sono questi stronzi che dobbiamo schiacciare…”, diceva un professore indagato riferendosi agli altri candidati, parlando con un candidato che “doveva” vincere. In un’altra intercettazione uno degli indagati pronuncia la frase: “Hanno pestato la merda ora se la piangono”, commentando l’operato di un candidato che aveva presentato ricorso, che sarebbe stato minacciato di ritorsioni nei confronti della moglie, che non avrebbe mai – queste le minacce – più fatto parte di una commissione. In un’altra intercettazione il rettore Francesco Basile parlando in merito ai concorsi ‘ad hoc’, avrebbe detto: “L’università nasce su una base cittadina abbastanza ristretta di élite culturale della città perché fino ad adesso sono sempre quelle le famiglie”.

Per le elezioni del Consiglio di amministrazione sarebbero anche stati usati dei ‘pizzini’ per i componenti del Senato accademico. Le regole del codice sommerso prevedevano anche sanzioni: ritardi nella progressione in carriera o esclusioni da ogni valutazione oggettiva del proprio curriculum scientifico. Il sistema, secondo gli investigatori, non sarebbe riferito solamente all’università etnea ma sarebbe esteso ad altri atenei italiani.

Il provvedimento del gip – per il rettore ed i nove professori erano stati chiesti gli arresti domiciliari – è stato emesso sulla base di indagini svolte dal giugno del 2016 al marzo del 2018 partite da una querelle che c’era stata in precedenza tra un professore e l’ex rettore Pignataro e che riguardava una procedura amministrativa. Dopo quella vicenda, il giorno della sua elezione, Basile, incontrando Pignataro avrebbe chiesto se la stanza fosse stata bonificata da eventuali cimici.

Tutti i concorsi, secondo chi indaga, sarebbero stati organizzati prima, sulla base del vincitore. Il bando, secondo gli accertamenti della Digos, sarebbe stato costruito ad hoc attorno al vincitore, le pubblicazioni sarebbero stata stabilite in base a quelle che lui aveva e l’ordine di chiamata sarebbe stato deciso in base alla possibilità di avere una persona invece che un’altra. Si sarebbero inoltre creati finti eventi culturali per poter pagare le trasferte ai commissari.

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