Huawei, le tariffe e la bilancia commerciale. Sono i tre dossier intorno a cui ruoterà l’atteso meeting tra Donald Trump e Xi Jinping a margine del G20. In gioco c’è una possibile nuova escalation tra Cina e Stati Uniti a poco più di un anno dall’inizio della sfiancante “trade war”. È dallo scorso maggio che le due superpotenze, a un soffio dalla firma di un accordo, hanno interrotto i negoziati – secondo Washington – a causa di un improvviso ripensamento cinese. Per Pechino, invece, le richieste americane sono aumentate verticalmente nelle fasi finali dei colloqui. Le accuse – contenute in un libro bianco di recente pubblicazione – mettono in evidenza come per la Cina la postura statunitense non rischi semplicemente di compromettere le relazioni economiche tra i due paesi. Ma finisca persino per invadere la sovranità cinese e rallentare il processo di sviluppo collaudato durante 40 anni di riforme. Colpa della sovrapposizione tra sicurezza nazionale e interessi commerciali, vero marchio di fabbrica dell’amministrazione Trump.

Questo spiega perché, secondo fonti del Wall Street Journal, Xi Jinping sfrutterà il meeting per fronteggiare l’omologo statunitense su tutta la linea: sul tavolo delle trattative ci sarà quindi Huawei così come la rimozione dei dazi e un ridimensionamento della somma che Pechino si impegnerà a versare per l’acquisto di nuovi prodotti americani al fine di ridurre il surplus cinese. Proprio l’azienda di Shenzhen è diventata il simbolo – oltre che la principale vittima – delle rivalità sino-americane.

Dall’arresto della CFO Meng Wanzhou lo scorso dicembre, il colosso delle telecomunicazioni è stato colpito da severe sanzioni che ne mettono a rischio la stessa sopravvivenza. Ulteriormente esclusa dal mercato americano con una doppia manovra che dallo scorso mese ne limita tanto le possibilità di business con i partner locali quanto l’accesso alle forniture di componentistica americana, Huawei si trova a rispondere delle accuse di spionaggio e violazioni delle sanzioni statunitensi contro l’Iran. Imputazioni non nuove, invero, che tuttavia rispuntano proprio mentre la corsa verso il 5G vede la società cinese prima per contratti commerciali siglati, pari a due terzi delle apparecchiature utilizzate nella rete di quinta generazione al di fuori della Repubblica popolare. Misure restrittive analoghe sono state estese ad altre entità coinvolte nello sviluppo di tecnologie d’avanguardia per la loro stretta vicinanza al governo e all’esercito cinese.

In tutti i casi, il dito punta fermamente contro i rischi per la sicurezza nazionale, tanto da aver indotto l’amministrazione americana a richiedere provvedimenti corrispondenti da parte dei paesi alleati. Ma l’insistenza con cui Trump ha ammesso di voler sfruttare Huawei come merce di scambio nelle trattative commerciali rischia di indebolire la credibilità di Washington agli occhi della comunità internazionale. E non solo. La tattica dell’inquilino della Casa Bianca ha già suscitato una levata di scudi all’interno della fazione più oltranzista dell’amministrazione. Con in mente la riconferma a un secondo mandato nel 2020, non è escluso che il presidente statunitense possa ridimensionare le proprie richieste, privilegiando l’ottenimento di concessioni capitalizzabili sul breve termine. Come un aumento delle importazioni da parte della Cina a discapito delle riforme strutturali in materia di politiche industriali, sussidi statali e protezione della proprietà intellettuale. Un’opzione che allenterebbe la pressione sui produttori di casa ma scontenterebbe tutte quelle aziende, presenti da anni oltre Muraglia, costrette a cedere i propri segreti commerciali per sopravvivere in un mercato in cui la reciprocità è ancora riscontrabile solo nei comunicati ufficiali.

La molta carne al fuoco basta a escludere una risoluzione immediata delle numerose, annose questioni d’attrito. Pechino ha messo in chiaro che il raggiungimento di un accordo implica il rispetto degli interessi nazionali da ambo le parti. Condizione primaria pare sia la rimozione delle restrizioni contro Huawei e un allentamento delle tariffe del 25% imposte da Washington su 200 miliardi di dollari di “Made in China”.

Secondo il South China Morning Post, un’intesa preliminare sarebbe già stata raggiunta per sospendere gli ulteriori minacciati dazi su 300 miliardi di merci cinesi – una somma che estenderebbe le sanzioni a tutte le importazioni americane dall’altra sponda del Pacifico. Ma la Cina sa bene potrebbe trattarsi di una vittoria effimera. D’altronde è stato proprio poco dopo l’ultima tregua a margine del G20 di Buenos Aires che la CFO di Huawei è stata arrestata su richiesta di Washington mentre faceva scalo in Canada.

Di Chinafiles per ilfattoquotidiano.it

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