Si sono macchiati di “comportamenti gravi e non compatibili con il codice etico del Pd”. Il Partito democratico non rimane inerte di fronte al coinvolgimento di Omero Schiumarini e Fiorenzo D’Alessandri nell’inchiesta della Dda di Roma che martedì ha portato in carcere 31 persone e smantellato il presunto clan Fragalà che per anni ha operato nell’area a sud della Capitale. Con una nota l’ufficio stampa del Pd della Provincia di Roma ha comunicato che il consigliere comunale dem di Pomezia e l’ex esponente dei Ds e più volte candidato sotto le insegne dem “anche non avendo notizia di indagini a loro carico (…) sono stati espulsi dal partito“.

“Il Pd ribadisce il ringraziamento alla magistratura e alle forze di polizia per lo straordinario lavoro che portano avanti nella lotta alla criminalità, che va sostenuta senza sé e senza ma, da tutti e in particolare dalla politica che non può – conclude il comunicato – né deve offrire ombre di incertezza né di tolleranza“.

Parole in linea con la linea intrapresa da Nicola Zingaretti, che commentando l’inchiesta che ha decapitato i vertici del Pd in Umbria ha enunciato un principio chiaro: “Dobbiamo selezionare la nostra classe politica senza aspettare che a volte siano le procure a accendere i riflettori”, aveva spiegato il segretario dicendosi pronto ad alzare “una battaglia etica, morale e civile”.

Una battaglia che dovrebbe avere inizio proprio nella Regione Lazio di cui Zingaretti è presidente, visto che il 1° gennaio 2019 Schiumarini è stato assunto alla Pisana a tempo determinato nell’Ufficio Tecnico Europa, di diretta competenza del presidente del Consiglio, che all’epoca dell’inizio del contratto era Daniele Leonori, o oggi vicepresidente della giunta (e non del consiglio, come riportato nell’articolo che dava conto dell’inchiesta).

L’assunzione, avvenuta per chiamata diretta, è avvenuta nonostante Schiumarini non fosse sconosciuto alla giustizia. Nel 2001 era stato arrestato nell’ambito dell’operazione “Bignè“, la cosiddetta “tangentopoli pometina”, con l’accusa di corruzione in concorso tra gli altri con D’Alessandri. E nella stessa inchiesta era finito coinvolto Alessandro Fragalà, il presunto boss che intercettato annuncia di voler “riprendersi il comune di Pomezia” con l’accusa di estorsione aggravata.

L’inchiesta era finita per intervenuta prescrizione ma, respingendo il ricorso presentato da alcuni imputati per vedersi riconosciuta l’assoluzione con formula piena, la Corte d’Appello di Roma scriveva che il tribunale di primo grado aveva sì prescritto ma “ha chiaramente motivato che (…) vi era adeguata prova della reità di tutti gli imputati”.

Un buon punto di partenza, tenere presente la storia personale degli aspiranti collaboratori delle istituzioni, per la selezione della classe dirigente. Affinché gli auto-appelli a non “offrire ombre di incertezza né di tolleranza” non rimangano parole di circostanza.

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