In attesa che a giugno riprenda l’esame del ddl Pillon, il contestato provvedimento della Lega sull’affido condiviso, la Corte di Cassazione emette una sentenza sulla “alienazione parentale”, la cosiddetta Pas (Parental Alienation Syndrome), uno dei temi più controversi affrontati nel testo del Carroccio. Secondo una certa giurisprudenza, la Pac diagnosticata a un figlio sarebbe dovuta al comportamento di uno dei genitori che, spesso in fase di separazione, viene accusato di screditare l’altro agli occhi del minore. I giudici della Suprema Corte hanno invece accolto il ricorso di una mamma contro la Corte di Appello di Venezia che, nel 2017, aveva disposto l’affidamento in comunità per sei mesi del figlio all’epoca 13enne che viveva con lei e che non voleva vedere il padre definendolo “bugiardo, violento e viscido”. Una sentenza che, confermando quanto stabilito già in primo grado, dava ascolto alla diagnosi di professionisti secondo cui il ragazzino soffriva evidentemente di “sindrome di alienazione parentale”, dovuta principalmente alla madre che, di conseguenza, l’adolescente non avrebbe dovuto più vedere da solo per qualche tempo. Per la Cassazione, invece, “non ci sono certezze in ambito scientifico sulla diagnosi di Pas”, spesso utilizzata nelle separazioni caratterizzate da conflitti tra coniugi in lite per l’affidamento dei figli ancora minorenni. “In realtà questa sindrome non è riconosciuta né dell’Organizzazione mondiale della sanità, né dal Ministero della Salute, né dall’Istituto superiore di sanità” spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Alessandro Simeone, esperto in materia di diritto di famiglia e dei minori.

IL FIGLIO CONTESO – La Suprema Corte ha così ribaltato il verdetto di secondo grado. Secondo i giudici non v’è dubbio che la Corte di Appello di Venezia abbia deciso “di escludere per un semestre la madre dalla vita del figlio (salvo la programmazione di incontri periodici del ragazzino con i due genitori in ambiente controllato) aderendo esclusivamente “alle conclusioni del consulente tecnico di ufficio”, giunto a una diagnosi di Pas. Anche perché, nonostante le richieste della madre, il figlio era stato ascoltato solo una volta a 13 anni. Secondo il consulente era stato proprio “il comportamento materno” ad aver portato “a un conflitto di lealtà nella prole” con “condotte tendenti ad escludere l’altro genitore”. Non potendo essere subito affidato al padre “a causa della forte avversione” del minore verso “l’ambiente familiare paterno”, è stato stabilito che al figlio (che vive ancora con la madre senza problemi né di rendimento scolastico né di rapporti con i coetanei) servisse “una struttura educativa terza” per poi disporre l’affidamento esclusivo del ragazzino al padre.

LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE – Ai magistrati veneziani, invece, la Suprema Corte ha ordinato di riesaminare il caso e riascoltare il 15enne, come prevede l’attuale legge sull’affido condiviso. Proprio per la mancanza di solidità scientifica della diagnosi di questo presunto disturbo della sfera affettiva e relazionale, la Cassazione ritiene che i consulenti che la sostengono, con l’obiettivo di dimostrare che un genitore ha allontanato il figlio dall’altro coniuge, compiono una “devianza dalla scienza medica ufficiale”. La conseguenza? Per la Suprema Corte i giudici non possono affidarsi ciecamente alle diagnosi di Pas e, per decidere che cosa sia meglio fare nell’interesse del minore, devono invece “ricorrere alle proprie cognizioni scientifiche” oppure avvalersi di “idonei esperti” per “verificare il fondamento” della diagnosi di Pas.

UNA SINDROME NON RICONOSCIUTA DALLA SCIENZA – La sindrome di alienazione è un concetto elaborato dal medico Richard Gardner, tra l’altro messo sotto accusa per alcune dichiarazione contro le donne e in favore della pedofilia pubblicate nei suoi libri. “Esistono comportamenti alienanti di uno dei genitori che possono portare il figlio a nutrire una certa avversione – continua Simeone – ma non c’è il riconoscimento del fatto che questi portino a una vera e propria sindrome nel minore”. Non solo non esiste la malattia “ma neppure l’automatismo – sottolinea Simeone – tra il comportamento alienante e l’eventuale rifiuto di un figlio di vedere uno dei genitori, che può dipendere da una serie di fattori. Ricordiamo che ci possono anche essere motivi più che validi perché un figlio rifiuti di vedere un padre o una madre”.

GLI EFFETTI DELLA SENTENZA – La recente sentenza della Cassazione crea un precedente importante. Agli inizi di aprile, infatti, il Tribunale di Brescia aveva emesso un verdetto simile a quello dei giudici di Venezia, riconoscendo la sindrome di alienazione parentale nel caso di una bambina di dieci anni, residente in Franciacorta. Sulla base di questa diagnosi, la piccola era stata affidata al padre. Questo è potuto accadere nonostante un’altra sentenza già emessa dalla Suprema Corte nel 2013, nella quale si stabiliva che la sindrome da alienazione parentale non esistesse e che non potesse essere dunque utilizzata da psicologi e assistenti sociali nei contenziosi tra genitori per l’affidamento dei figli. Tre anni dopo, però, sempre la Cassazione ha stabilito che non è sua competenza il giudizio sulla scientificità di una teoria. Da allora, la ‘carta’ della sindrome è stata utilizzata più volte.

La Cassazione è ora intervenuta, stabilendo che occorre valutare caso per caso “e che, anche l’eventuale comportamento alienante di un genitore – sottolinea l’avvocato Alessandro Simeone – non può essere pagato dal minore per il quale, andare in comunità, soprattutto se adolescente, non significa solo essere strappato dalla famiglia, ma anche dagli amici e da tutto il contesto in cui vive”. Cosa accadrà ora? “O i giudici pronunceranno sentenze conformi a quella della Cassazione, oppure tutti i verdetti nei quali viene riconosciuta la Pas potranno essere impugnati davanti alla Suprema Corte”.

IL DDL PILLON – Ma questa è una sentenza destinata a far discutere anche perché arriva mentre si attende la ripresa della discussione del ddl Pillon, che si preannuncia tutta in salita. Basti pensare che per il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Vincenzo Spadafora (M5S), si trattava di una questione ormai archiviata (“La legge non arriverà mai in Aula”). Il testo, criticato aspramente anche dalle opposizioni e da diverse associazioni, come il Movimento per l’Infanzia perché “crea un clima ostile verso chi cerca di tutelarsi e punisce i bambini che mostrano legittimo rifiuto verso il genitore maltrattante”, introduce una serie di modifiche in materia di diritto di famiglia, separazione e affido condiviso dei minori.

E, in tema di alienazione parentale (citata come ‘grave fenomeno’ anche nel Contratto di Governo), prevede infatti la facoltà per un giudice di limitare o sospendere “la responsabilità genitoriale e disporre l’inversione della residenza abituale del figlio minore presso l’altro genitore o il collocamento provvisorio” in strutture specializzate, qualora il figlio “manifesti comunque rifiuto, alienazione o estraniazione” rispetto al padre o alla madre, “pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori”. Un testo, ennesimo terreno di scontro tra Carroccio e pentastellati, la cui discussione è stata già sospesa ad aprile dall’ufficio di presidenza della commissione Giustizia del Senato e poi rinviata a dopo le elezioni Europee del 26 maggio. “Nella relazione e nel testo non si entra nel merito dell’esistenza o meno di una sindrome – conclude Simeone – ma poi nella legge si prevede un meccanismo che ha comunque gli stessi effetti, censurati dalla Cassazione. Per questo, ritengo che anche il ddl dovrebbe adeguarsi a quanto stabilito dalla Suprema Corte”.

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