Eni sapeva, ma ignorò il problema. Persino quando a segnalarlo fu un consulente ingaggiato per le verifiche su quei serbatoi che hanno sversato almeno 400 tonnellate di petrolio nel suolo e compromesso il “reticologo idrografico” della Val d’Agri, arrivando a lambire la diga del Pertusillo che rifornisce d’acqua parte della Basilicata e tutta la Puglia. Uno “stillicidio” di idrocarburi che – secondo la procura di Potenza – avrebbe causato un “disastro ambientale”. I manager del Cane a sei  zampe impegnati nel Centro oli di Viggiano lo fecero per “motivi economici” all’interno di una “precisa strategia” attuata a livello locale “ma certamente condivisa dai vertici di Milano” tesa a “nascondere i gravi problemi” di “corrosione” dei serbatoi.

“Il profitto unico faro delle scellerate scelte”
Le condotte portate avanti sono state “caratterizzate da una sconcertante malafede e spregiudicatezza”, secondo il gip Ida Iura che ha disposto i domiciliari per l’ex responsabile del Centro oli di Viggiano, Enrico Trovato, indagato con altre 13 persone e la stessa azienda. Nascondendo quanto accadeva nell’impianto lucano e non intervenendo subito per tappare i buchi dei serbatoi che contenevano il petrolio, sono quindi stati “sacrificati” per anni la tutela di salute e ambiente di fronte alle “ragioni economiche d’impresa”, definite “l’unico faro” che “ha illuminato e sorretto tutte le scellerate scelte aziendali”.

Dal Comitato tecnico “avallo ingiustificato” all’azienda
Sono accuse pesatissime quelle rivolte al management dell’azienda petrolifera nell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti dell’ex responsabile dell’impianto. Perché – pur non essendoci manager apicali sotto inchiesta – ricostruiscono un presunto modus operandi all’interno dell’azienda. Che avrebbe coinvolto anche i predecessori di Trovato, Andrea Palma e Ruggero Gheller, sotto inchiesta come anche 5 membri del Comitato tecnico regionale della Basilicata che avrebbero potuto forzare l’azienda all’intervento e invece diedero un “avallo ingiustificato” alle posizioni di Eni nel 2014. Così, secondo il procuratore capo di Potenza Francesco Curcio, se nel febbraio 2017 le perdite non fossero venute alla luce per un malfunzionamento dell’impianto fognario i danni avrebbero potuto essere ancora più gravi.

“Corrosione ignorata. Sforzi per silenziare criticità”
Stando alla ricostruzione dei carabinieri del Noe – ai quali i pm Laura Triassi e Veronica Calcagno hanno delegato l’indagine – l’inerzia dell’azienda, dettata da motivazioni economiche, ha comunque causato un disastro ambientale. E a un anno dalla scoperta delle perdite, inquinanti come benzene, Soa, tetracloroetilene e triclorometano superavano ancora i valori soglia fino a 38 volte. Tutto “provocato dal difetto di contenimento di quattro i serbatoi” del Centro oli, interessati da “fenomeni rilevatissimi di corrosione del fondo, noti, persino studiati e volutamente ignorati dai vertici aziendali”, così da “non compromettere l’efficienza e la redditività dell’attività” che veniva “evidentemente considerata” in un’ottica “meramente economica” del tutto “sganciata dal contesto ambientale in cui era svolta”, scrive il gip del Tribunale di Potenza. Tanto che “tutto lo sforzo dei responsabili locali, con l’avallo degli organi di vertice della società – si legge nell’ordinanza – è stato quello di “silenziare” le criticità (…) allo scopo di evitare che le inevitabili problematiche ambientali rendessero” l’impianto di Viggiano “l’anello debole della catena produttiva, considerato l’interdipendenza con la struttura di Taranto”.

L’ispettore ai pm: “Per il Cova esiste solo la produzione”
A supporto della tesi ci sono le dichiarazioni di chi intervenne a Viggiano già nel 2012, ben cinque anni prima delle perdite, come l’ispettore di impianti dell’Istituto italiano di saldature, Domenico Di Donato. In un serbatoio vennero trovati “ben 8 fori”. Ascoltato dagli inquirenti nel 2018, Di Donato ha messo a verbale: “Per il Cova esiste solo la produzione (…) Avevo detto a tutti che i serbatoi B e D che stavano accanto ai serbatoi A e C, che già avevamo perso, dovevano essere nella stessa condizione e pertanto chiedevo cosa aspettassimo a ispezionarli. Era ovvio aduna persona di media intelligenza che la condizione dovesse essere la stessa”. E nel corso dell’inchiesta si è scoperto che nel 2013 Eni aveva anche dato incarico a un professore del Dipartimento di chimica del Politecnico di Milano di studiare il problema.

Il gip: “Nascondono tutto ciò che non viene scoperto”
Ma poco o nulla venne fatto, anche se l’azienda ha rivendicato in una nota il “tempestivo intervento”. Secondo il gip, invece, anche quando venne a luce lo sversamento tra l’agosto e il novembre 2016, che poi porterà nel 2017 alla chiusura dell’impianto per tre mesi, l’azienda dimostrò “clamorose inefficienze”. Da alcune intercettazioni riportate nell’ordinanza emergerebbe per la sede di Viggiano “l’inesistenza di procedure ambientali di verifica” e la “superficialità della gestione del problema della sicurezza dell’ecosistema”, nonché “la grave e inescusabile confusione in cui versava” persino il tecnico responsabile del settore Salute, Sicurezza, Ambiente del distretto Meridionale dell’azienda petrolifera. E, secondo gli inquirenti, anche dopo il febbraio 2017 Eni ha continuato “a nascondere tutto ciò che non viene scoperto” dalle autorità di controllo. Dei dipendenti citati negli atti l’unico che agì con “coscienza e scrupolo” è Gianluca Griffa, l’ex responsabile della produzione di Viggiano ritrovato morto in un bosco nel 2013. Aveva capito cosa stava accadendo già nel 2011 e denunciò ai superiori: “Volutamente era stato emarginato – scrive il gip – Ma se le precauzioni suggerite, siamo nel 2013, fossero state considerate avrebbero scongiurato il disastro ambientale scoperto quattro anni dopo”. A ringraziarlo, quasi sei anni dopo la morte, è stata la procura.

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