Esistono carceri che sono considerate punitive. Esistono da sempre, ricordo che se ne parlava da quando ho cominciato a occuparmi di questi temi. Si sa, così come chi ha fatto il militare di leva in altri anni sapeva che esistevano caserme punitive.

Negli ultimi mesi l’associazione Antigone ha ricevuto varie lettere – rigorosamente di carta: il carcere è il solo posto in Italia dove ancora girano francobolli – che provenivano da detenuti nel carcere di Viterbo e denunciavano maltrattamenti e violenze. “Mi hanno tenuto in mutande di inverno per giorni in una ‘cella liscia’ e sono stato preso a pugni. Ho la testa piena di cicatrici”, si legge in una delle lettere. La cella liscia è la cella svuotata di tutto, quella che in teoria viene usata per alloggiare chi ha intenti autolesionistici e potrebbe farsi del male con oggetti di uso quotidiano. In pratica capita che sia usata per isolare e punire chi si considera fastidioso. È quella logica della sottrazione di cui ha parlato il Garante nazionale dei diritti dei detenuti nella sua relazione annuale al Parlamento di qualche giorno fa: per risolvere i problemi si sottraggono oggetti, spazi, pezzi di esistenza. Invece di aggiungerne, di pensare che chi si vuole suicidare in carcere potrebbe essere aiutato dal beneficiare di maggiori contatti con lo psicologo, di maggiori telefonate con i genitori, di maggiori attenzioni dell’istituzione.

Tre i suicidi avvenuti nel 2018 dentro il carcere di Viterbo: il 9 gennaio, il 21 maggio e il 30 luglio. In uno di questi casi, il ragazzo era stato incontrato tre mesi prima da operatori del Garante regionale dei diritti dei detenuti, che avevano trovato sul suo corpo gravi segni di percosse. Un esposto era stato inviato alla procura. “Sono stato malmenato dalle guardie, picchiato forte da farmi perdere la vista all’occhio destro”, si legge in un’altra delle lettere ricevute da Antigone. “Un trauma alla testa per le pizze e pugni che ho preso senza motivo perché ho chiesto più volte all’appuntato di poter andare a scuola e le guardie mi rispondono che a scuola non ci vai… Io gli rispondo che fate i mafiosi con me senza motivo… Passano quattro o cinque minuti e mi vengono ad aprire la cella… mi portano per le scale centrali da lì hanno cominciato a picchiarmi forte tra calci, schiaffi, pugni e sono intervenuti altri con il viso coperto. Erano otto o nove mentre mi menavano dicevano noi lavoriamo per lo Stato italiano negro di merda perché non torni al paese tuo”. È un racconto agghiacciante, che spesso si ha paura a ripetere apertamente: “Se dico qualcosa qua mi menano”.

Sono in corso tanto un’indagine penale quanto una amministrativa. Speriamo che siano rapide ed efficienti. Possibile che serva la tenacia di una donna che ha perso suo fratello, come è capitato a Ilaria Cucchi, affinché si dia attenzione alle violenze compiute verso persone che si trovano in custodia dello Stato? Certo, il carcere è un ambiente opaco e omertoso, perciò non facile da indagare. Ma è pur sempre un luogo che coinvolge solo poche centinaia di persone. Fortunatamente i nostri inquirenti hanno risolto casi ben più complicati di questi.

I tanti episodi tragici del carcere di Viterbo fanno purtroppo pensare a un carcere punitivo. Saremmo ben lieti se fossimo smentiti. La sola punizione legittima da dare a un detenuto è il carcere in sé, non questo o quel carcere particolare e la violenza che esso copre. Stiamo rendendo pubbliche denunce di episodi che, se confermati dalle indagini, sono gravissimi. Nessuna potrà dire che non lo sapeva.

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