Se ogni epoca ha le sue figure professionali di riferimento, la nostra è l’epoca degli economisti. Non solo perché essi imperversano su tutti i media, di grande o piccola diffusione, ma perché oggettivamente la conoscenza delle dinamiche economiche, del funzionamento della complessa “macchina” degli scambi a livello micro e macro, e del controllo di tutte le variabili connesse – dalla disoccupazione all’inflazione – non è mai stata così decisiva. Gli economisti vanno ringraziati per quanto e per come hanno saputo aprirci gli occhi su una materia troppo spesso colpevolmente trascurata dall’uomo della strada.

E tuttavia, c’è un’altra figura da rivalutare. Essa avrebbe moltissimo da dire, ma troppo spesso tace, intimidita dal prevalere e dal prepotere del bruto dato economico. Parliamo del giurista. Il quale è sottovalutato e si sottovaluta, mentre dovrebbe cominciare a prendere coscienza di quanto egli possa incidere, quanto se non più dell’economista, sull’andamento delle cose e sul futuro della società. In effetti, e a ben vedere, se molti dei nostri problemi sono “anche” di natura economica – discendono cioè da un cattivo governo degli strumenti dell’economia -, quasi tutti sono “soprattutto” di natura giuridica. Ad esempio, la scelta operata, in occasione dell’ormai celebre divorzio del febbraio 1981, da Bankitalia e ministero del Tesoro ad opera del duo Andreatta-Ciampi, non si colloca sul piano economico, ma su quello giuridico.

Se Via Nazionale si sentì liberata dal vincolo di acquistare i titoli di Stato invenduti alle aste, ciò accadde perché il ministro del Tesoro, con un atto di natura amministrativa (e quindi giuridico), decise inopinatamente e con slancio autolesionista di sollevarla dal preesistente onere. Le conseguenze derivate – e cioè l’esplosione del debito pubblico italiano (la cui percentuale sul Pil raddoppiò in poco più di un decennio) a causa della spirale perversa degli interessi sul debito non più calmierati da Banca d’Italia – sono un effetto economico. Ma il fatto che l’Italia non sia fallita per questo lo si deve a una variabile giuridica.

La famosa letterina del 1981, infatti, non obbligava, ma consentiva (di nuovo, una dirimente sfumatura giuridica) a Bankitalia di astenersi dall’intervenire alle aste dei titoli. Il che significava la conservazione, da parte della Repubblica, della teorica e intangibile possibilità di monetizzare in qualsiasi momento il proprio debito pubblico. E infatti lo spread, negli anni Ottanta, oltrepassò i 1000 punti base, e nei Novanta i 500, senza che nessuna agenzia di rating facesse un plissè e senza che nessun quotidiano confindustriale invocasse di “fare presto” nel sostituire un esecutivo frutto di democratiche elezioni con un altro di tecnici fiduciari cooptati dall’alto.

Poi entriamo nell’euro e gli economisti pro establishment ci spiegano quanto sia importante il pareggio di bilancio e l’essere “virtuosi” al fine di ottenere “fiducia” e “credito” dai mercati finanziari, pena il downgrade di Moody’s o Fitch e il default della patria. Essi hanno perfettamente ragione sul piano economico, ma la condizione indubitabilmente perversa, iniqua e inaccettabile in cui si trova l’Italia non trova la sua scaturigine nell’economia, ma nel diritto.

È infatti una norma giuridica (l’articolo 123 del trattato di Lisbona) a vietare alla Banca centrale europea qualsiasi “concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia” a favore degli Stati e qualsiasi intervento calmierante nelle aste dei titoli, consegnando così gli Stati stessi al potenziale, e letale, ricatto permanente dei mercati.

Ed è ancora una norma giuridica, il regolamento comunitario 1466 del 1997 (che introdusse il Patto di stabilità e crescita con l’obiettivo della parità di bilancio a medio termine) ad aver tradito persino le originarie intenzioni del trattato di Maastricht col quale si consentiva, quantomeno, la possibilità per gli Stati di fare un deficit annuo entro la soglia “magica” del tre per cento.

Uno dei più autorevoli giuristi italiani, Giuseppe Guarino, nel pamphlet Saggio di verità sostiene che l’euro entrato in vigore, sui mercati finanziari, il primo gennaio 1999 è un “euro falso”, proprio perché ispirato a un regolamento che non poteva, né doveva, prevalere sui trattati di Maastricht e di Amsterdam. Anche qui ci troviamo di fronte a un problema giuridico. Guarino non teme di definire quanto accaduto un vero e proprio “colpo di Stato”. Consolidatosi in seguito, aggiungiamo noi, con il Fiscal compact del 2012 e con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. Di nuovo, passaggi giuridici, non economici.

Quindi, se è vero che la paralisi in cui versa qualsiasi esecutivo italiano, nel momento in cui deve decidere le politiche di sostegno al Paese, ha connotati eminentemente economici, è altrettanto vero che essa ha cause squisitamente giuridiche. È dal diritto che verrà, se mai verrà, la salvezza. Il che significa muoversi nel solco e nella direzione di un ripensamento, se non radicale e traumatico, quantomeno robusto e costituzionalmente orientato, delle famose (e “stupide”: Prodi dixit) “regole” dei trattati a cui ci siamo per ora vincolati. I giuristi rialzino la testa: usando la medicina del diritto si possono curare le patologie dell’economia.

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