Pochi fogli, sdruciti dagli anni e con tante parole e nomi anneriti. Documenti che saltano fuori da un archivio del Sios Marina, il servizio d’intelligence della Marina militare (oggi non esiste più). Un archivio di certo non ufficiale, custodito probabilmente da uomini che hanno fatto parte di Stay Behind, ossia l’organizzazione Gladio. Documenti rintracciati da chi scrive insieme ad Andrea Palladino, nel 2011, a 17 anni dall’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Nel 2012, l’inchiesta giornalistica scaturita da quei documenti fu pubblicata proprio dal fattoquotidiano.it. Che ne seguì? Alla procura di Roma, dove risiede l’inchiesta sull’assassinio dei due giornalisti, nulla.

Un seguito vi fu a Palermo, dove quei documenti furono acquisiti, e a Trapani, al processo sull’assassinio di Mauro Rostagno. I giudici, in quell’occasione, fecero anche diversi approfondimenti per avere riscontri sull’autenticità di quei fogli. E nella sentenza ne danno conto positivamente. Ora, quei vecchi messaggi risalenti al 1994 sono tornati all’attenzione: gli avvocati che si oppongono alla terza richiesta di archiviazione (sono tre: Carlo Palermo e Giovanni D’Amati per i parenti di Ilaria Alpi, Giulio Vasaturo per la Fnsi, l’Ordine dei Giornalisti e il sindacato dei colleghi Rai), tra le diverse piste che chiedono di approfondire indicano anche quella dei messaggi Stay Behind/Gladio.

Di che si tratta? Di messaggi in linguaggio militare, molto criptici e in gergo. Ma vi sono riferimenti eclatanti: si tratta di operazioni fatte in Somalia. Alcuni dei documenti si riferiscono al marzo 1994.  Si tratta di messaggi e ordini interni alla struttura Stay Behind, secondo il suo nome ufficiale (in sigla SB), stando ai quali risulta che l’ombra di Gladio si stende su vicende che nulla hanno a che vedere con i compiti per i quali l’organizzazione era stata creata, ossia un’azione di resistenza “dietro le linee” in caso di invasione dell’Italia da parte di forze del Patto di Varsavia. Non solo. La sua ombra si stende ben oltre il 10 aprile 1991, giorno in cui avrebbe dovuto cessare di esistere (Giulio Andreotti, pressato dalle inchieste di Felice Casson, allora magistrato inquirente alla procura di Venezia, ne rivela l’esistenza nel dicembre 1990).

Alcuni di questi documenti, dicevamo, riguardano il Paese del Corno d’Africa, all’epoca della missione di pace Ibis, cioè fra il dicembre 1992 e il marzo 1994. Molti dei nomi citati nei documenti di Gladio sono in codice, oppure sono stati resi illeggibili da un tratto di pennarello nero. Altri invece sono individuabili: quello di Vicari, ad esempio, alias Vincenzo Li Causi, punta di diamante del servizio segreto militare e comandante del misterioso Centro Scorpione di Trapani di Gladio dal 1987 a tutto il 1990. Ma anche Jupiter, alias Giuseppe Cammisa, braccio destro di Francesco Cardella, il guru co-fondatore della Comunità Saman insieme a Mauro Rostagno. Un terzo nome di battaglia, Condor, sarebbe riferibile a Marco Mandolini, sottufficiale del Col Moschin e capo scorta del generale Loi in Somalia, ucciso anche lui in circostanze mai chiarite nel giugno 1995 su una scogliera della Versilia.

È uno, in particolare, il messaggio che stupisce. Un documento asciutto, di poche righe: “Causa presenze anomale in aree Bos/Lasko ordinasi ‘Jupiter’ rientro immediato base 1 Mog. Ordinasi spostamento tattico ‘Condor’ zona operativa ‘Bravo’ possibile intervento”. La data è del 14 marzo 1994.  Dall’attenta lettura del documento si evince una serie di informazioni. Il dispaccio parte dal Comando Carabinieri del Sios Alto Tirreno-La Spezia, cioè il servizio segreto della Marina militare, sciolto nel 1997 e confluito prima nel Sismi e poi nell’Aise, la nostra intelligence per l’estero. È destinato a Balad, in Somalia, la città dove aveva sede il comando del nostro Contingente, durante la missione Ibis nel Paese africano.

In sostanza, decodificando il messaggio, si dice che l’uomo col nome in codice “Jupiter” deve lasciare le aree di Bosaso/Las Koreh, due cittadine sulla costa Nord-est della Somalia che si trovano a oltre 1500 km da Balad. Jupiter deve andarsene a causa di tali “presenze anomale” nella zona. Viene anche ordinato lo spostamento di un altro uomo, tale “Condor”, per un “possibile intervento” in un luogo non decifrabile, dato che viene indicato solo come “zona operativa ‘Bravo’”, presumibilmente un’area della capitale somala Mogadiscio.

Poche righe che schiudono tanti interrogativi. Il dispaccio è classificato “segretissimo” e impartisce ordini che partono dal Comando di La Spezia. Il 14 marzo 1994, cioè esattamente il giorno dell’arrivo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin nella città di Bosaso. Sono i due giornalisti le “presenze anomale in area”? L’uomo che ha fatto emergere questi documenti da qualche cassetto o cassaforte, appartenuto all’organizzazione Gladio, non ha dubbi: “Sì, il riferimento è ai due giornalisti“. Sappiamo che Ilaria e Miran avrebbero dovuto restare solo due giorni a Bosaos, per rientrare a Mogadiscio il 16 marzo. Perdono – o fanno perdere loro – l’aereo e vi rimangono fino al 20. Sappiamo che c’è in quei giorni un problema scottante da risolvere a Bosaso: il sequestro della nave Faarax Omar, della flotta Shifco. E sappiamo che Ilaria fa domande al Sultano su quella nave, chiede di salirvi a bordo, incalza il Sultano sui legami tra i traffici somali e l’Italia. Perché tale Jupiter deve andarsene di corsa? E perché un altro agente dell’organizzazione viene messo in preallarme per un “possibile intervento”? Di che intervento si tratta? Insomma, cosa accadeva in quel luogo, sperduto ma strategico?

È una domanda chiave che potrebbe spiegare l’agguato mortale di pochi giorni dopo. Il documento di Gladio racconta una storia tutta da approfondire: una struttura militare occulta si interessa alla presenza dei reporter. C’è preoccupazione per quello che potrebbero scoprire.  Il gladiatore intervistato parla chiaro: i due giornalisti andavano fermati, perché “non venisse fuori quello che stavamo facendo laggiù”.

Vediamo meglio chi è “Jupiter”. Secondo il “gladiatore” che abbiamo intervistato, si tratterebbe di Giuseppe Cammisa, il braccio destro di Francesco Cardella, co-fondatore della comunità Saman di Trapani con Rostagno. Ci sono conferme della presenza di tale Giuseppe Cammisa a Bosaso, il 14 marzo? Ci sono. In effetti si trovava là, o meglio a Gibuti, il giorno 14, ma in partenza per Bosaso. La prova viene da un fax inviato dallo stesso Cammisa (che tra l’altro si firma Jupiter), spedito il 15 marzo 1994 da Gibuti. Lo manda alla sede di Milano della Saman, e annuncia che il giorno successivo, il 16 marzo, si sposterà “a Bosaso e oltre” (così recita testualmente il fax). Cammisa era stato mandato in Somalia proprio da Francesco Cardella, accompagnato da un medico somalo, Omar Herzi. Il fax, insieme ad altri documenti relativi alla missione somala, è stato rinvenuto all’archivio della comunità Saman in via Plinio, a Milano.

Cammisa, quindi, era sicuramente in quella zona. Tra i documenti rintracciati nel capoluogo lombardo c’è anche la fotocopia del suo passaporto, con il visto per Gibuti, la prenotazione del volo aereo dall’Italia (il 5 marzo 1994), la lettera di accreditamento per il viaggio fino a Bosaso con un aereo Unosom, lo stesso volo che da Gibuti, proseguiva poi per Mogadiscio. Il 16 marzo utilizza lo stesso volo che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin perdono. Naturalmente, tra le carte della Saman c’è indicata anche la ragione di quel viaggio nel capoluogo del Puntland: ufficialmente, Cammisa e il medico Omar Herzi dovevano avviare un progetto di cooperazione per la creazione di un centro di salute (o piccolo ospedale) a Las Korey (un centinaio di km a nord di Bosaso), e fare una distribuzione di medicinali per la popolazione.

Il problema è che non c’è traccia del progetto sanitario della Saman. Come conferma, in una nota del 10 novembre 1997, l’allora direttore del Sismi Gianfranco Battelli: “Nulla, invece, è noto circa l’impegno (della comunità Saman, ndr) nella costruzione di un ospedale o di altra struttura a Bosaso”. Più pesante è il giudizio della procura di Torre Annunziata, che parla esplicitamente di “un filone che collega le attività della comunità Saman a un traffico d’armi dalla Sicilia alla Somalia, presumibilmente gestito e organizzato all’interno di strutture un tempo di pertinenza dell’amministrazione militare”.

Anche un ex collaboratore di giustizia della ’ndrangheta, Francesco Fonti (ora deceduto), aveva rivelato, davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta Alpi-Hrovatin, la presenza di Cammisa in Somalia. In tempi non sospetti, quindi, ben prima che venissero alla luce nel 2011 i dispacci di Gladio. Fonti, all’epoca, racconta di un suo viaggio a Mogadiscio del gennaio 1993, realizzato allo scopo di organizzare spedizioni di rifiuti tossici. In quella occasione avrebbe incontrato in Somalia Giuseppe Cammisa e un tale Giuseppe Maviglia, un calabrese di Africo. Il presidente della Commissione Carlo Taormina non ritenne di approfondire ulteriormente quella testimonianza.

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