Con questo post inizia una serie di interventi dedicati a MaTerre 2019, cantiere cinepoetico euro-mediterraneo, un progetto artistico di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, in coproduzione con Rete Cinema Basilicata, Fondazione Matera Basilicata 2019 e Lucana Film Commission, che dirigo insieme al regista Antonello Faretta e al filosofo del diritto Paolo Heritier. Il progetto prevede la realizzazione di un film di poesia in cinque episodi in realtà immersiva e ha come tema l’identità, a partire dalla celebre poesia di Scotellaro, intitolata La mia bella Patria. Proverò a raccontarvelo e, insieme, a ragionare con voi da poeta sul significato della parola “identità” e su tutti gli aspetti ad essa connessi: dai diritti ai sogni, dall’organizzazione sociale alle leggi.

Partiamo dall’immaginare l’esistenza di una terza strada. Estranea alla dicotomia disgiuntiva di questo mondo che crede alla logica del questo o quello, sì o no, sopra o sotto, vero o falso. Poiché è evidente, fin nel linguaggio che prova a comprenderlo, che tutto è invece estremamente complesso, intrecciato, implicato. E in costante movimento. In accelerazione. A partire dall’identità, che è ciò di cui qui si tratta: questo significherebbe allora che esiste una terza strada che sta in mezzo tra l’abbandonarsi a ideologie identitarie (nazionaliste, razziste, fasciste) e il lasciarsi affogare nel mare omogeneo di quello che correntemente viene definito globalizzazione.

L’identità di ciascuno di noi è in realtà vittima dell’alienazione d’identità, anche se su scala e con aspetti radicalmente diversi. E lotta contro questa alienazione. Non più limitata alla fabbrica e alle sue linee, né da quella forma di acquisizione di identità che si chiamava coscienza di classe. Perché non c’è lotta senza identità.

L’uomo deprivato d’identità sa soltanto desiderare. Senza attingere mai all’appagamento. È schiavo di se stesso e nello stesso tempo è servo del potere disantropomorfizzato. Il potere è uno specchio e in quello specchio continua a guardarsi l’uomo che non ha più alcuna identità, nessuna dimensione, neanche quell’unica che ancora gli riconosceva Marcuse alla fine del secolo scorso. Riconosce se stesso in lui, difendendo il potere, si illude di difendere se stesso. Nessuna rivoluzione, nessun cambiamento è possibile senza che ad agirli siano delle identità.

Si diceva una volta che occorre un soggetto rivoluzionario. Combattere contro l’identità in nome della lotta alle ideologie identitarie è buttare via il bambino con l’acqua sporca. Significa continuare a immaginare che la fine del capitalismo non possa che coincidere con la fine del mondo. E non è così.

Proviamo allora ad ipotizzare che valga per questo problema dell’identità ciò che valeva per la “nobiltà” ormai all’autunno del Medioevo. Proviamo, provocatoriamente, con un approccio stilnovista, da “futuro remoto”. Ripartiamo da Guido Guinizzelli e dalla sua Al cor gentil rempaira sempre amore. Tutta la teoria della “gentilezza”, della nuova “gentilezza”, dello Stil Novo è basata sul concetto che la nobiltà (cioè la gentilezza) non si erediti, ma si acquisisca. Che essa sia frutto, cioè, di una scelta, per certi versi dell’esercizio di un diritto: il diritto a migliorarsi e a raffinarsi, a rendersi sempre più adatto ad accogliere l’Amore.

Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:
vile reman, né ’l sol perde calore;
dis’ omo alter: «Gentil per sclatta torno»;
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d’ere’
sed a vertute non ha gentil core,
com’ aigua porta raggio
e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.

Se si sostituisce alla nobiltà guinizzelliana il diritto alla cittadinanza, ne consegue che cittadini non si nasce (Gentil per sclatta torno, sono nobile per diritto di nascita), da questo punto di vista cittadini si diventa, e lo si diventa pienamente soltanto nel momento in cui ci si riconosce in quel determinato insieme di valori, tradizioni, norme e leggi che sono alla base di quella determinata società.

Ciò significa una serie di cose: sia che qualsiasi essere umano, quale che sia il suo luogo di nascita, ha diritto a essere e a sentirsi pienamente europeo, o italiano, francese, ecc., sia che questo diritto sia esercitabile soltanto nella misura in cui si accettano le norme, le leggi, i valori che di quella cittadinanza sono l’essenza. Soltanto quando si è capaci, per dirla con Guinizzelli, di essere “gentili”.

Ma significa anche che chi tali valori rifiuta, per esempio umiliando le donne attraverso l’imposizione di determinati modi di vestirsi (il burqa) o addirittura le mutila per impedire loro di vivere pienamente la loro sessualità (infibulazione), non può immaginare di avere diritto a tale cittadinanza. Accettare codeste pratiche a causa di un malinteso senso di rispetto di altre culture, o di altre religioni – dichiarare, cioè, che sia “gentile” ciò che non lo è affatto – avrà come unico risultato quello di gettare tra le braccia delle ideologie razziste e “identitarie” tanti e tante che con esse non avrebbero, in realtà, nulla a che fare.

Dice Rocco Scotellaro:

Io sono un filo d’erba
un filo d’erba che trema
E la mia Patria è dove l’erba trema.
Un alito può trapiantare
il mio seme lontano.

E cioè: io sono e ho diritto di essere cittadino in ogni luogo in cui l’erba trema, anche lontanissimo dalla mia patria anagrafica, a patto che io sia capace di riconoscermi in quel “tremore”. E questo diritto lo acquisisco, stilnovisticamente, grazie alla mia “gentilezza”, cioè alla mia capacità di armonizzare il mio tremare con il tremare di coloro che condividono con me un determinato patto sociale (sia etico sia giuridico). Dovunque io possa riconoscermi, dovunque io scelga di riconoscermi, in qualsiasi luogo, qualsiasi genere, qualsiasi utopia. In piena autonomia e libertà.

La poesia su tutto questo ha detto, dice e potrà dire molto. Perché la poesia custodisce i significati delle parole: per farli esplodere, per tradirli e rinnovarli, certo, ma anche per impedire che essi siano pervertiti, come accade sin troppo spesso.

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