Negli ultimi anni – grossomodo da quando ha subito un’accelerazione il processo di approdo agli Stati Uniti d’Europa – si è diffusa, soprattutto nei salotti che contano e nell’intellighenzia benpensante, una specie di equazione dozzinale che suona, più o meno, così: antieuropeismo = qualunquismo populista. Secondo questa vulgata, chiunque si collochi in una posizione di critica severa, benché motivata, nei confronti dell’eurozona e dell’Europa Unita, fa un discorso antistorico e reazionario. Non a caso, i partiti della sinistra governativa e dell’area cosiddetta progressista – dai socialisti continentali ai laburisti inglesi ai democratici italiani – sono fieramente europeisti e convintamente persuasi della ineluttabilità del processo di unificazione.

Sennonché, vi sono almeno due paradigmi incistati in questa impostazione di pensiero palesemente fallaci e fuorvianti. Sono veri e propri pregiudizi, durissimi a morire, e non meno pericolosi di quelli addebitati, dall’establishment al fronte sovranista (tipo l’egoismo nazionale, l’etnocentrismo, il particolarismo provinciale, eccetera). Si tratta di una coppia di miti fondativi che, a loro volta, generano tutta una serie ricorrente di narrazioni inevitabilmente erronee proprio perché basate su presupposti errati. Il primo di tali miti è quello che addita nel nazionalismo il male assoluto o persino il tumore da estirpare per poter addivenire, alla buon’ora, a una stagione di pace internazionale garantita da istituzioni trans-nazionali. Il secondo, invece, è quello che individua nell’unificazione politica, e a tappe forzate, tra Stati Nazione un tempo indipendenti, l’unica strada per gareggiare adeguatamente, e possibilmente vincere, nell’arena della competizione globale.

Se andiamo ad analizzare da vicino queste “storie” e sospendiamo, per un attimo, il pre-giudizio che ci induce istintivamente ad accettarle, digerirle e divulgarle con supina e acritica rassegnazione, potremmo avere delle grosse sorprese. Quanto alla prima, è sufficiente una conoscenza scolastica della nascita, dello sviluppo e della degenerazione degli stati nazione, in ambito europeo, per comprendere come l’aggressività delle entità statuali, la loro propensione alla conquista, alle avventure coloniali, alla mistica imperiale non sia da individuare nell’idea di Nazione. In altri termini, non sono mai state le nazioni, puerilmente intese come bellicosi popoli in armi, a preparare, volere, dichiarare e infine esportare le guerre nell’Occidente e poi nel resto del mondo. Sono state, semmai, le risicatissime elite a capo di quelle nazioni –  riconducibili a ben precisi interessi di carattere economico, finanziario e (dall’Ottocento in poi) industriale – a militarizzare prima le masse per immolarle poi nei carnai di una trincea. La convivenza pacifica è un valore introiettato dalla gente comune non grazie, ma nonostante la costruzione bislacca, illogica, a-democratica della Ue.

E allora perché questa insistenza, da parte di una certa rispettatissima e influente pubblicistica, nel denigrare l’idea di nazione? La risposta risiede nel secondo dei miti cui abbiamo accennato in apertura: quello compendiabile nel perentorio slogan che ciascuno di noi avrà sentito pronunciare chissà quante volte: gli Stati Uniti d’Europa sono inevitabili per competere nell’arena globale. “Competere” e “arena” sono le password per intrufolarsi nelle nostre menti. E anche i virus che le infettano. La visione dominante del mondo, nella logica oggi dominante “nel” mondo, è quella di una gigantesca lotta tra poli commerciali in cui l’obbiettivo è vincere, o soccombere. Questa, liofilizzata in due righe, è la filosofia dell’Evo Competitivo, la quintessenza del credo neoliberista. Bisogna unirsi per non venire schiacciati dalla concorrenza altrui. Anche a costo di impiegare, come munizioni per attrarre capitali, la manovalanza dei lavoratori indigeni precarizzati o di quelli stranieri sfruttati.

Ora, non solo questa convinzione è sbagliata (vi sono stati, anche piccoli, che reggono benissimo la cosiddetta sfida internazionale proprio perché conservano una sovranità democratica e territorialmente radicata, oltre che popolarmente legittimata), ma è anche paradossale se esaminata insieme alla prima. Da un lato si vuole arrivare alla liquidazione coatta amministrativa delle nazioni per asserite esigenze di pace universale. Dall’altro, lo si esige per competere meglio su scala mondiale. Laddove, oggidì, come noto a chiunque, è proprio questa competizione sfrenata di carattere commerciale e finanziario a generare più vittime e lutti di molte guerre guerreggiate. È come se l’ordoliberismo si fosse trasformato, parafrasando (correggendolo) von Clausewitz, nella continuazione della guerra con altri mezzi.

Per concludere, abbiamo un lavoro importantissimo da fare, a livello giuridico e psicologico. Dobbiamo demistificare i due paradigmi di cui sopra se vogliamo cambiare il mondo. Sempre che sia nostra intenzione farlo. Se, invece, siamo convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, allora proseguiamo sereni su questa strada. Sempre dritti verso il dirupo.

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