Gaspare Spatuzza si è commosso in aula pensando a quello che ha fatto (le stragi di mafia del 1992 e 1993) ma soprattutto a quello che non ha fatto, cioè dire la verità per scagionare gli innocenti che aveva davanti in carcere. Sapeva benissimo che erano stati condannati per i reati che lui (non loro) aveva commesso. Eppure da buon mafioso stava in silenzio. Vedeva la loro disperazione e teneva dentro la sua ma non parlava. Lo ha raccontato, prima di accennare un pianto soffocato davanti al Tribunale di Caltanissetta, in trasferta a Roma per sentire i collaboratori di giustizia nel processo ai tre poliziotti accusati di calunnia aggravata: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei.

Nell’agosto del 1997 il braccio destro di Giuseppe Graviano, nominato reggente del mandamento di Brancaccio, dopo l’arresto dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e del loro erede Antonino Mangano, finisce nel carcere di Parma. Il destino lo porta a condividere la detenzione con Gaetano Murana, condannato perché avrebbe partecipato alla strage di via D’Amelio facendo addirittura da battistrada nel trasporto della Fiat 126 imbottita di esplosivo in via D’Amelio e Giuseppe Orofino, il carrozziere condannato perché avrebbe aiutato Cosa Nostra nella preparazione dell’autobomba. Entrambi non c’entravano nulla con la strage che costò la vita a Paolo Borsellino e ai membri della scorta, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli.

Gaetano Murana e Giuseppe Orofino come Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura erano stati incastrati dalle false dichiarazioni del pentito ‘farlocco’ Vincenzo Scarantino. Spatuzza sapeva benissimo che Orofino e Murana erano innocenti. Nel 1998, durante un colloquio investigativo alla presenza dell’allora Procuratore Pietro Grasso, senza auto-accusarsi, fece capire al pm che Scarantino mentiva. Poi però Spatuzza allora non si pentì. Solo dopo una conversione profonda passò dalla parte della legge 9 anni dopo. Così quella mezza ammissione restò in un cassetto della Direzione Nazionale Antimafia, poiché non aveva nessun valore.

Il pm Stefano Luciani, distaccato a Caltanissetta per seguire insieme all’aggiunto Gabriele Paci il processo ai tre poliziotti, nel suo esame testimoniale sottolinea questo punto delicato. Luciani cerca di entrare nella mente di Spatuzza e gli chiede cosa pensasse quando incrociava in cella lo sguardo di Murana. Quando il pm lo incalza, Gaspare Spatuzza (che nei suoi decenni bui fu responsabile di una quarantina di omicidi) si commuove. Gli avvocati di parte civile lo invitano ad andare avanti e ad alzare la voce. Mentre i due pm presenti in aula a Roma, come il presidente del Tribunale Francesco D’Arrigo sono più comprensivi. I magistrati aspettano alcuni secondi e il collaboratore rinfrancato riprende il suo discorso.

Spatuzza conclude con una constatazione amara: “Il carcere è più duro per un innocente”.

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