L’inserto L’Economia del Corriere della sera del 7 gennaio riportava un’intervista al presidente di Erc, il Consiglio europeo per la ricerca che finanzia progetti scientifici direttamente ai ricercatori che lavorano in Europa. Ci fa così sapere che siamo (quasi tutti) un po’ birichini. Gli accademici italiani non chiedono con sufficiente insistenza quattrini all’Europa. E, quando fanno lo sforzo di chiederli, ricavano una quota molto modesta del complesso dei finanziamenti competitivi, quali sono quelli erogati da Erc. In dieci anni l’Italia ha ottenuto 719 milioni di euro, meno della metà del Regno Unito (1.787) e meno dell’Olanda (764) che ha un quarto degli abitanti del Belpaese.

L’articolo si sofferma poi sull’eccezione virtuosa, l’Istituto di tecnologia di Genova che, nel 2017, avrebbe avuto 125 milioni di euro di ricavi. L’unica istituzione nazionale in controtendenza otterrebbe circa 90 milioni dallo Stato italiano, più o meno 20 da privati e una decina come fondi competitivi, da Erc e altri progetti Ue. A naso, la quota di autofinanziamento sarebbe pari a un terzo del fondo di funzionamento versato dalla Stato, ovvero un quarto del budget annuale. La quota “competitiva” circa l’11% del finanziamento statale.

Un grande risultato, secondo questa vulgata, anche se i 100 milioni di euro all’anno per dieci anni che la Legge 24 novembre 2003, n. 326 assegnava dell’Iit avrebbero dovuto essere un viatico temporaneo, giacché il ministro che l’istituì profetizzava a medio termine l’autofinanziamento tout-court dell’eccellenza. E dimostrava così una modesta conoscenza del mondo scientifico internazionale, perché non esistono istituzioni scientifiche o accademiche che si autofinanzino in tutto e per tutto. Se non c’è lo Stato, ci sono i donatori, i mecenati, gli ex-alunni.

Questa lettura, a inizio anno, mi ha inabissato nel rimorso, avendo per anni lavorato a progetti europei dal secondo al sesto programma quadro. Pessimismo e fastidio. Poi mi sono chiesto: “Siamo davvero dei fannulloni?“. Nel dubbio, ho fatto perciò lo sforzo di compulsare il bilancio pubblicato dal mio ateneo. Un esercizio ardito per un idraulico che, senza gli alti studi di ragioneria, decifra con difficoltà perfino l’estratto conto bancario. Dal “conto economico” del Bilancio Unico del 2017, intuisco che il Politecnico di Milano riceva dalla Stato circa 218 milioni di euro l’anno e abbia proventi propri per 156 milioni. Se da quest’ultimi sottraiamo circa 75 milioni di proventi per la didattica (nel mio immaginario le tasse pagate dagli studenti) i proventi di ricerca dell’ateneo ammontano comunque a 81 milioni di euro. L’autofinanziamento sarebbe quindi il 37% del finanziamento statale. Se l’Iit è una “giovane” eccellenza assoluta, almeno secondo il presidente Jean-Pierre Bourguignon, il mio vecchio ateneo (fondato nel 1863) fa ancora una discreta figura, come il vecchio Quagliarella a confronto con i giovani bomber emergenti. E vince per 37 a 33.

Su 81 milioni di autofinanziamento del Politecnico, 30 sono proventi “competitivi”, il 14% del finanziamento statale. Anche qui, la sorpresa: i vecchietti superano i giovani per 14 a 11. E ci sono in Italia istituzioni altrettanto virtuose che l’Iit, poiché molte università hanno considerevoli quote di autofinanziamento. Non dimentichiamo poi che gli accademici del Politecnico non fanno solo ricerca, ma istruiscono anche quasi 45mila studenti, con buoni risultati secondo tutte le classifiche internazionali. Inoltre, questi docenti un po’ fannulloni e un po’ birichini si scontrano ogni giorno con una valanga di impedimenti, lacci e lacciuoli burocratici che rende loro la vita difficile. Perché lo Stato italiano presuppone che siamo tutti mariuoli, accecati dal solo obiettivo di lucrare una notte da sogno in un albergo da sogno durante una missione da sogno, grazie al fondo spese dei nostri finanziamenti competitivi. E quanto scrivo con riferimento al mio ateneo, vale per molte università italiane.

In realtà, la tiepida accoglienza dedicata dai docenti italiani alle occasioni di finanziamento competitivo ha ragioni complesse. Dal numero degli addetti, il più modesto dell’’Occidente, al loro invecchiamento. Dalle regole borboniche di reclutamento dei giovani, al decrescente interesse della comunità nazionale e locale verso la conoscenza scientifica. E quando Consip, Mepa e tutti gli altri acronimi di un bestiario fantastico e spaventoso trasformano l’avventura della ricerca in una via crucis gestionale senza alcuna relazione con il sapere, qualcuno si rifugia nella ricerca teorica, dove bastano carta e matita.

Il modesto successo italiano non è perciò frutto, solo e soltanto, della mancata virtù degli accademici che, purtroppo, vivono nella nazione più ignorante d’Europa secondo i dati di IPSOS Mori. I soldi sono importanti, ma il sapere non è solo e sempre il frutto dei soldi. Sapere e innovazione sono anche e spesso il prodotto di alcuni tratti di matita tracciati su un foglio di carta. La virtù dell’eccellenza non sempre si misura in unità monetarie. E, in fondo, è tuttora attuale quanto disse Werner Heisenberg: “Quando incontrerò a Dio, gli porrò due domande: Perché la relatività? E perché la turbolenza? Sono sicuro che avrà una risposta alla prima domanda”. Non abbiamo fatto grandi progressi da quando Leonardo da Vinci intuì l’importanza dei vortici. Ma vale la pena di insistere a provarci.

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