Quando ho cominciato a fare ricerca, il mio sogno era scoprire di più sulle questioni che mi appassionavano, impegnandomi però a rispettare i dati e la realtà osservata. Poter scoprire meglio il comportamento umano e mettere a confronto ciò che scoprivo con il punto di vista di altre persone, diverso ma accomunato da onestà intellettuale e rigore metodologico. Ho anche pensato che i risultati, e il processo di ricerca stesso, andassero condivisi con la società più ampia. Ho sempre ritenuto che lo scienziato dovesse comunicare con umiltà i propri risultati, evitando sfoghi arroganti che alimentano solo ostilità e diffidenza. Forse sbagliavo, se leggo quanto accade oggi a Perugia.

Pare infatti che una pletora di politici finora non troppo conosciuti abbia sollevato dubbi, preoccupazioni, accuse contro un progetto dell’università di Perugia volto a conoscere le attitudini degli adolescenti umbri riguardo questioni come omotransfobia, rapporti di genere, immigrazione. Orrore! La paura, secondo il Secolo d’Italia, è che “dietro l’intento dichiarato di combattere l’omofobia si nasconda una campagna implicita pro-teorie gender”.

Si tratta quindi, forse, di domande che suggeriscono la risposta? Nessuno si è preso nemmeno la briga di dimostrarlo. Non a caso si tratta di domande universalmente riconosciute nel mondo accademico, frutto di anni di lavoro e limatura e ritenuta il gold standard per avere un’idea genuina delle opinioni espresse dalle persone. Tanto più che il questionario riporta nell’introduzione che “trattandosi di opinioni non esistono risposte giuste e risposte sbagliate, ciascuno risponderà in base al proprio pensiero”. Metodologie utilizzate da studi usati dai ricercatori di numerose discipline sociali in tutto il mondo, come Eurobarometro, World Values Survey, European Social Survey. Domande così neutre che, se poste in contesti di gruppo, pare addirittura abbiano l’effetto opposto di sollecitare opinioni più estreme che non se poste individualmente.

La paura è quella di un coinvolgimento poco etico dei ragazzi? Per esempio, che si estorcano dati potenzialmente in grado di identificarli, oppure che li si esponga a esperienze traumatizzanti o che “mettano in discussione oggetti che ritengono sacri” (un criterio utilizzato dalla mia università, per esempio, per valutare un potenziale di rischio, comunque minimo, nella ricerca)? Non sembra proprio né a me né a chiunque volesse leggere le domande né apparentemente alla Garante per i minori della Regione Umbria, presente all’incontro di estrazione del campione. I dati, inoltre, sono anonimi, al punto tale che è perfino impossibile risalire non solo all’identità, ma persino alla classe di appartenenza. Le domande sulla religione e le opinioni politiche, per alcuni fonte di preoccupazione, sono state limitate agli studenti della scuola secondaria. Si richiede perfino il consenso informato da parte dei genitori del singolo ragazzo chiamato a rispondere (cosa che, con tutto quello che si lascia fare ai giovani alla consapevole insaputa dei genitori, mi sembra quasi un eccesso di scrupolo).

Nessuno spiega quali siano le paure. Ma il motivo è semplice. A chi ha mosso il polverone non serve dimostrare niente. Non ha argomentazioni e non pretende di averne. La cosa che veramente li disturba è che si possa parlare di omosessualità e transgenderismo in un modo neutro. Hanno inventato dal nulla una fantomatica teoria gender e la usano come spauracchio da agitare quando si cerca di parlare di omosessualità senza inculcare l’idea che sia un problema. In modo molto orwelliano, accusano di indottrinamento chi si rifiuta di inculcare una visione patologica dell’omosessualità. Tant’è che gli adinolfiani, in un loro comunicato, hanno parlato di patologia.

Il risultato di questo polverone non è convincere, ma spaventare. Purtroppo pare ci stiano riuscendo se, come mi viene detto, alcune scuole hanno ritirato l’adesione al progetto. Ma a rimetterci non siamo sono soltanto noi ricercatori, che dovremmo indignarci in coro di fronte a questa ridicola invasione di campo da parte della politica. Non sono neanche soltanto gli adolescenti Lgbt+, che rischiano di perdere un importante strumento per conoscere l’estensione dell’omotransfobia nelle loro scuole. Siamo tutti noi. Vogliono toglierci perfino il diritto di sapere in che società crescono i giovani. Non possiamo accettarlo.

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