Sono loro i primi ostaggi. Le parole, voglio dire. Portate via, rapite e prese in ostaggio in cambio di denaro e potere. Perché sono loro, le parole, fatte di sabbia, che salveranno il mondo. Oppure lo perderanno come si fa sacrificando gli amici più cari al dio ben conosciuto che, nel Sahel come nel resto del mondo, governa e chiede quotidiani sacrifici umani. Nel nostro Niger, assediato dall’interno e dall’esterno, la gente sparisce senza lasciare traccia, come le parole. Sono state abbandonate come inutili appendici nelle mani dei religiosi, dei commercianti e dei politici di turno. Lasciate intristire nei rapporti degli esperti e degli intellettuali che, ormai da tempo, ne hanno dimenticato e poi smarrito la pericolosità.

Perché all’inizio c’è la parola e subito accanto la sabbia. Le due vanno insieme. Parole di sabbia che, tradite nel loro intimo, svuotate di senso, rubate ai poveri, si prendono la rivincita. Tutto quanto succede nel Sahel, allora come oggi, non è altro che la conseguenza della violenza operata sulle parole. Violentate e poi vendute come merce di scambio alle ideologie del mercato religioso, fiorente come non mai nei tempi di crisi. Scomparse le parole rimane la sabbia.

La violenza originaria, fontale, si esercita sulle parole. Manomesse, spostate a piacimento e il cui significato dipende da chi detiene il potere. Le tensioni comunitarie tra agricoltori e pastoralisti, stanziali e transumanti si è armata, perché chi ha interessi economici – e dunque militari – ha sottratto la parola che umanizza il conflitto. Dove si arrestano le parole sono le armi a parlare il loro linguaggio di morte annunciata. La violenza che accompagna da anni i transiti migranti nel Sahel e nel Sahara è anzitutto quella della parola. Il nemico, il potenziale migrante (criminale), l’eretico, il non stanziale, l’avventuriero, l’inconsapevole dei rischi, il trasgressore di frontiere e di documenti è stato costruito dalle parole dell’occidente in questi anni.

Sono passati tutti per confermarle col denaro in bocca. I dirigenti europei che, uno dopo l’altro, hanno difeso, minacciato, promesso aiuti perché le loro parole trovassero complici autoctoni. E così è stato. La loro parola si è fatta sabbia e ha cominciato ad abitare tra di noi. Militari, strumenti di controllo, centri di libera detenzione e altrove di tortura hanno visto il giorno. Prima di essere trattati da criminali, i migranti sono stati traditi dalle parole.

Accade lo stesso per le carestie, i progetti mai terminati, le promesse non compiute e i fondi per uno sviluppo compatibile con le esigenze umanitarie. Di quanto le parole possano diventare pericolosamente innocue è il sistema umanitario che ne rappresenta la parabola la più coerente e compiuta. Questo particolare mondo non potrebbe esistere e perpetuarsi senza il possesso delle parole e la sua costante manipolazione.

“Sviluppo, resilienza, capacitazioni, femminizzazione, promozione, aiuti, mercato e gestione delle crisi”. Queste e altre sono le parole che tessono di sabbia i progetti integrati di rafforzamento del sistema di iniquità globale. La perfidia di questa quasi intoccabile parte di mondo si organizza attorno a queste e altre parole, svuotate di storie, di volti e di sofferenze. Il vuoto è riempito dalla sabbia che, nella maggior parte di questi progetti, è la maestra assoluta del loro destino. La parola è stata espropriata di ogni rilevanza politica e si è ridotta a dare le migliori garanzie al potere perché nulla cambi della società così com’è concepita dai potenti. La realtà di oppressione e di lotta di classe all’origine dello sfacelo attuale, grazie alla confiscazione della parola, è ridotta a fenomeno naturale o al più accidentale. Una parola di sabbia umiliata.

Accade ancora, nella demografia nel Sahel, che la parola passi dal silenzio e poi al pianto di una nuova vita. La salvezza è un bambino che impara a pronunciare parole nuove e intanto gioca con la sabbia tra le mani.

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