Manovra, l’economista: “Per tornare a crescere serve un New deal: spostare 16 miliardi in investimenti sulle piccole opere”

“Il governo sposti tutte le risorse della legge di Bilancio sugli investimenti. Non vuol fare le grandi opere? Si concentri su quelle piccole: metta a posto le scuole e le strade, adegui alle norme antisismiche tutti gli edifici pubblici, rifaccia le carceri per dare spazi consoni ai detenuti. Così si crea lavoro e diventa molto più facile trattare con l’Europa sul deficit. In parallelo riduca le stazioni appaltanti a un centinaio e per gestirle assuma i migliori, come in Francia e in Inghilterra. Anche strapagandoli, perché se riescono a eliminare le decine di miliardi che finiscono in sprechi ne vale la pena”. Per Gustavo Piga, ordinario di Economia politica a Tor Vergata e all’inizio degli anni Duemila presidente della centrale acquisti Consip, uscire dall’impasse della procedura europea di infrazione e spingere la crescita si può. Con una ricetta ispirata alla presidenza Obama ma ancora prima al New deal lanciato da Franklin Delano Roosevelt dopo la crisi del ’29: uno stimolo non ai consumi ma agli investimenti.
La sua proposta arriva mentre l’Istat attesta che nel terzo trimestre la crescita italiana si è fermata. E nei giorni in cui il governo gialloverde, per ammorbidire la Commissione, valuta se modificare la manovra trasferendo appunto al capitolo infrastrutture e opere pubbliche una parte della spesa inizialmente prevista per quota 100 e reddito di cittadinanza. Ma secondo l’economista la svolta che serve è più radicale: “In passato la politica ha sacrificato gli investimenti perché era la cosa più facile da fare per rispettare i parametri europei: a pagarne il prezzo erano i più giovani, che ancora non votavano… Questo esecutivo, che giustamente ha deciso di liberare tante risorse anche in deficit, a mio vedere dovrebbe rilanciarli spostando sotto quella voce tutti i 16 miliardi destinati a reddito e pensioni”. E le promesse del contratto di governo? “Gli elettori non sono stupidi: se con gli appalti si riesce a dare lavoro a tutti, nessuno avrà da protestare. Un piano di piccole opere – scuole, strade, carceri, adeguamento alla normativa antisismica di tutto il patrimonio edilizio del Sud – si può fare in tempi brevi, è difficilmente rallentato da contenziosi, dà ossigeno alle piccole imprese e crea occupazione”.
Al netto delle scelte e valutazioni politiche, l’auspicio di Piga nasce dai numeri: la spesa per investimenti pubblici, tra 2007 e 2017, è crollata in valori assoluti di oltre il 30%, passando dal 3 a meno del 2% del pil. E gli aumenti previsti per i prossimi anni dai documenti di bilancio (ammesso che i soldi stanziati vengano davvero utilizzati) non sono sufficienti a tornare ai livelli precedenti. Dopo il picco di 54,2 miliardi toccato nel 2009, l’anno dopo la pubblica amministrazione ha investito solo 47 miliardi. Nel 2015 la cifra è scesa ancora, a 36,7 miliardi. A quel punto il comparto privato ha ricominciato a investire, lo Stato no. Dopo i 35 miliardi del 2016, il 2017 si è chiuso con soli 33,7 miliardi di spesa effettiva contro gli oltre 38 previsti dal Def. Per il 2018 la stima è di 33 miliardi, l’1,9% del pil.
Il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha ricordato più volte che nel bilancio dello Stato sono già stanziati di qui al 2033 circa 150 miliardi di euro, compresi i 38 miliardi aggiunti al Fondo per gli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale istituito dall’ultima manovra di Matteo Renzi. Quella cifra però, spalmata su 15 anni, non è sufficiente per tornare ai livelli pre crisi. Nel 2021 il governo prevede di arrivare a 44 miliardi, pari al 2,3% del pil, ancora ben sotto la spesa di un decennio fa.
E i soldi bisogna riuscire a spenderli. La Nota di aggiornamento al Def firmata da Tria ammette che “una serie di fattori di natura legale, burocratica e organizzativa che si sono accumulati nel corso degli anni” hanno determinato “carenze nella selezione e valutazione dei progetti e ostacoli all’efficacia della spesa”. E cita esplicitamente, accanto all’entrata in vigore del nuovo Codice appalti, “la perdita di competenze tecniche e progettuali delle amministrazioni pubbliche, in particolare di quelle locali anche a causa del protrarsi del blocco del turn over“.
Secondo Piga, questo è il secondo pilastro: per far ripartire la macchina occorre assumere e motivare specialisti con forti competenze tecniche, in grado di governare la spesa per investimenti e quella per gli acquisti di beni e servizi, voce che comporta sprechi stimati nell’1,6-2% del pil.
Certo il lavoro risulterebbe più semplice se le 36mila stazioni appaltanti ancora in attività fossero ridotte a “un centinaio”, aggiunge l’economista. Il primo passo è il decreto per la qualificazione delle stazioni appaltanti, che dovrebbe consentire di gestire gare oltre un certo valore solo agli enti che dimostrano di avere sufficiente esperienza e personale adeguato. A prevederlo è il nuovo Codice entrato in vigore ad aprile 2016. Il governo Gentiloni aveva preparato una bozza, che ha avuto il via libera dell’Anac. Ma la norma non è mai stata emanata.